Il futuro del partito dell’asinello (e dell’America)

“Insomma, una cosa è certa: in futuro il partito democratico assomiglierà sempre più a quello immaginato da Bernie e sempre meno a quello che oggi appoggia Hillary”

Massimo Manzo, il 20 aprile 2016, dopo le primarie del New York, on line su La voce di New York.

L’ho già detto e scritto (si legga quanto riportato in nota).

Orribilmente per me, il domani non solo del partito dell’asinello quanto degli USA appare, è, segnato.

Un più o meno veloce allineamento al socialismo di stampo europeo.

Obama, in linea con i tempi, ha aperto la via e Bernie Sanders – il vecchio senatore del Vermont – la indica più compiutamente.

Non che la strada sia piana, magari in discesa, senza ostacoli.

Ma è comunque retta e percorribile.

Semplificando brutalmente, gli americani sono geneticamente mutati e come non potrebbe tale, negli ultimi anni, travolgente mutazione non determinare il futuro politico sociale del Paese?

Certo, i ‘vecchi’ cercheranno di resistere, ma non riusciranno se non, e forse, a ritardare il tramonto prima e la dissoluzione poi dell’America (del sogno, della diversità, della libertà per molti, della sopraffazione, dello sfruttamento, dell’imperialismo per altri) che la mia generazione e quelle precedenti hanno, a seconda delle convinzioni ideali e ideologiche, ammirato e seguito oppure odiato e avversato.

L’ottimo Massimo Manzo – autore della frase che cito all’inizio di questa mia, dato lo spazio a disposizione, necessariamente non articolata né esaustiva riflessione (ma, invito, si legga la nota) – nella indicata analisi disponibile nel web ricorda le elezioni degli anni Ottanta del Novecento.

Esaminando l’azione politica di Bernie Sanders, i riscontri che ha nell’elettorato giovanile, riferendosi in particolare al partito oggi di Hillary Clinton (e domani?) in conclusione, scrive:

“Qualcosa di simile provò a farla l’attivista afroamericano Jesse Jackson durante le primarie democratiche del 1984 e del 1988, quando con il suo programma progressista influenzò il partito rendendolo più inclusivo e coinvolgendo nel processo politico giovani e minoranze.

Fu grazie all’adesione di nuovi e numerosi militanti (soprattutto nel Sud) che il partito riconquistò il Senato nel 1986, mentre nelle primarie di due anni dopo, pur perdendo la battaglia finale contro Michael Dukakis,  Jackson collezionò importanti vittorie, vincendo tredici Stati e guadagnando milletrecento delegati, che gli permisero di far sentire il suo peso nella successiva convention.

Gli effetti nel 1988 non furono immediati: Jackson sembrò il grande sconfitto, Dukakis non lo incluse nel ticket per la vicepresidenza (carica alla quale puntava) e i democratici persero le elezioni presidenziali contro George H.W. Bush.

L’impronta lasciata da Jackson e le energie da lui sprigionate furono però essenziali nella formazione della grande coalizione obamiana del 2008.

Senza di lui, Barack Obama non avrebbe probabilmente mai riscosso un così ampio successo.

Oggi, gli effetti della “rivoluzione politica” portata avanti dal movimento di Sanders avranno conseguenze già tra qualche anno, sulla spinta della crescente crisi d’identità dell’America odierna”. Per concludere, come riportato  nelle prime righe e come qui ripeto:

“Insomma, una cosa è certa: in futuro il partito democratico assomiglierà sempre più a quello immaginato da Bernie e sempre meno a quello che oggi appoggia Hillary”.

Un futuro (si legga qui di seguito in nota il mio ‘Quando gli Stati Uniti saranno socialisti’)  che apparterrà all’intero Paese.

 

Nota

Quando gli Stati Uniti saranno socialisti (con una nota sulla ‘traslatio imperii mundi’) 

 

15 febbraio 2016

 

Socialisti?

Populisti?

Radicali?

Anarchici?

Perfino, comunisti?

A sinistra (come a destra, del resto), gli Stati Uniti hanno visto di tutto.

E, sia pure senza speranza alcuna, nei primi decenni del trascorso Novecento, socialisti come il mitico Eugene Debs e comunisti ortodossi come William Zebulon Foster, appoggiati dal fior fiore intellettuale del Paese, hanno aspirato alla presidenza.

Con qualche risultato, in specie Debs.

Fallendo miseramente, Foster.

Ma oggi, e non da oggi, le cose sono cambiate, e radicalmente.

Il ‘segno’? 

Il ‘momento’?

L’elezione di Barack Obama nel 2008.

E’ appunto nel 2008 che giunge a compimento la ‘terza rivoluzione americana’ – mia, la definizione – la prima essendo ovviamente quella guerreggiata e vinta contro gli inglesi, la seconda essendo quella consacrata dalla sconfitta politica, nel 1828, della ‘aristocrazia’ che aveva ‘fatto’ e governato il Paese dalle origini – rappresentata a quel momento dal presidente uscente e defenestrato John Quincy Adams – ad opera della borghesia – che per l’occasione vestiva i panni di Andrew Jackson.

(Su questo tema, ho lungamente argomentato in ‘Americana’ e nel primo volume di ‘USA 1776/2016’).

Il novembre 2008, politicamente, idealmente, ideologicamente parlando, certifica il tramonto di un preciso mondo, di un preciso ‘modo’, di vedere e vivere gli Stati Uniti.

Semplificando brutalmente, i precedentemente dominanti wasp (white-anglosaxon-protestant) realizzano in quel momento nelle urne di non essere più maggioranza nel Paese

(Anche perché divisi tra loro, essendo l’ala ‘liberal’ non poco incidente in merito).

I neri, gli ispanici, le altre differenti etnie hanno costretto in minoranza la classe che dai primi vagiti, e sia pure nel succedersi sopra segnalato tra ‘aristocratici’ e ‘borghesi’, governava gli USA.

Per sempre!

La presidenza Obama è in effetti il primo concreto passo verso l’europeizzazione di una nazione che proprio di europeizzazione non aveva mai neppure voluto parlare.

Di una nazione creata da migliaia e migliaia di persone che dall’Europa erano andate via cercando un ‘nuovo mondo’, di poi realizzato.

E’ in questa direzione, è guardando alla ‘terza rivoluzione americana’, è prendendo atto del continuo progredire in termini di votanti (necessaria conseguenza del loro aumento demografico) dei ‘non wasp’, di quanti Mitt Romney definiva nel 2012 “elettori che chiedono, pretendono l’assistenzialismo, sui quali un ‘vero’ americano non può contare”, che si comprende la candidatura nelle file democratiche di Bernie Sanders.

La candidatura e il successo.

Chi mai, difatti, anche solo agli inizi del terzo millennio, avrebbe scommesso un soldo bucato sull’idea di un socialista, duro e puro, in corsa per White House con qualche reale possibilità quantomeno di nomination?

(Per il vero – e basterà qui andare a leggere quanto da me vergato già verso fine Novecento – in prospettiva, avevo parlato di un ‘futuro socialista’ USA, collocandolo però in anni di là da venire, non quindi così presto.

Ed è questa la ragione per la quale, per la prima volta dal 1952, nel citato 2008 ho sbagliato la previsione riguardo al candidato alla Casa Bianca vincente).

E occorre, adesso, a primarie 2016 in corso, segnalare un paradosso: come quanti siano avversi al socialismo e sostenitori della ‘vecchia’ America debbano fare il tifo in casa democratica per Hillary Clinton, che fermi da subito, battendolo, il socialistone Sanders.

Un paradosso, per quanto mi riguarda, dato che vedo Hillary come il fumo negli occhi.

(Peraltro, dovesse Sanders comunque arrivare all’election day, ritengo sarebbe sconfitto dal repubblicano che gli fosse contrapposto, con qualche dubbio se il competitor fosse Donald Trump).

D’altronde, e guardando all’inevitabile declino al quale sono avviati – declino che il socialismo accelererà sostanzialmente – non è forse vero che già nel 1792, il pastore e geografo Jedediah Morse sosteneva che gli Stati Uniti segnavano e avrebbero segnato l’apogeo della storia e che, quindi, aggiungo io, sarebbero da lì inesorabilmente caduti?

Riferendosi alla teoria della ‘traslatio imperii mundi’, il buon Morse scriveva:

“…è ben noto che l’impero si è spostato da est a ovest.

Probabilmente la sua ultima e più vasta impresa sarà l’America…”

per arrivare poche righe dopo a parlare di un futuro, all’epoca difficile da prevedere, “non molto lontano” ‘impero americano’.

Oggi, ci rendiamo conto del fatto che la ‘traslatio’ continua e che il governo del mondo torna dalla parti dell’Asia, continente dal quale, sia pure molto più ad ovest della Cina, il predetto ‘impero’ era partito.

Evviva!!!

Nota bene

A  proposito della ‘traslatio, Henry Kissinger, in ‘New World Order’, chiarisce:

“Si tratta dello ‘spostamento del governo del mondo’ che secondo la teoria vede la sede del potere politico supremo viaggiare nel tempo e nello spazio: da Babilonia e dalla Persia alla Grecia, a Roma, alla Francia o alla Germania e di lì alla Gran Bretagna e, supponeva Morse, all’America”.