Si può contare nei sondaggi sull’ottantanove per cento di gradimento e perdere la Presidenza?

Marzo 1991.

Alla Casa Bianca George Herbert Bush.

Miracolato nella sfida del 1988 col democratico Michael Dukakis (dato a meno diciassette nei sondaggi aveva vinto di dieci), caduto il Muro di Berlino e portata a termine la Guerra del Golfo, il Presidente gode di una popolarità incredibile che nelle rilevazioni arriva addirittura all’ottantanove per cento.

(E v’è qualcuno che ritiene che proprio questo dato abbia convinto Mario Cuomo, Governatore del New York e primo nei sondaggi in casa democratica quanto alla nomination, a non entrare in competizione).

A ben guardare, tutto questo sfarfallio consegue ai successi riportati – non solamente quelli sopra elencati – essenzialmente in politica estera, campo nel quale, per formazione, esperienza e indole, G.H. Bush eccelleva.

È il campo economico invece e di contro a metterlo in difficoltà.

Un periodo emergente di crisi che lo porterà a disattendere la sua famosa promessa: “Leggete le mie labbra: nessuna nuova tassa!”

Inoltre, inattesa, la candidatura come ‘terzo’ di un indipendente di grandi e personali disponibilità e di notevole appeal: Ross Perot, che erode profondamente il suo elettorato.

Da aggiungere, ovviamente, che lo sfidante democratico è inaspettatamente (viene dall’Arkansas ed è sconosciuto) uomo di qualità e peso considerevoli: Bill Clinton.

Risultato?

Ai primi di novembre del 1992, Bush perde nettamente in termini percentuali e soprattutto di Grandi Elettori.

Prima di lui solo Martin Van Buren (nel 1836, addirittura), da Vice era elettoralmente subentrato a colui (Andrew Jackson) del quale aveva esercitato il vicariato.

Lo imiterà in tutto e per tutto: successore diretto di Ronald Reagan (e ne era il Vice), perderà dopo un solo mandato.