La maledizione dell’anno zero

Come più volte ricordato, i presidenti americani entrati in carica sono finora quarantatre (Obama è in elenco quale quarantaquattresimo capo dello Stato solo perché Grover Cleveland, vittorioso due volte non consecutivamente – 1884 e 1892 – è conteggiato sia quale ventiduesimo che quale ventiquattresimo inquilino di White House).

Peraltro, ove si escludano dal novero John Tyler, Millard Fillmore, Andrew Johnson, Chester Arthur – i quattro vice che nell’ordine per primi subentrarono al titolare e che, giunto il termine del mandato, non si ripresentarono – e in più Gerald Ford (l’unico ad arrivare alla Casa Bianca senza essere passato attraverso il vaglio del voto visto che prima di sostituire Nixon era succeduto quale vice al dimissionario Spiro Agnew), le persone effettivamente elette con lo specifico incarico di ricoprire quel ruolo sono trentotto.

Di queste, ben otto sono decedute in carica e una si è dimessa!!!

Una percentuale davvero preoccupante, guardando alla quale ci si può chiedere se la presidenza USA porti bene o no.

Nell’ordine, i defunti sono William Harrison (1841), Zachary Taylor (1849), Abraham Lincoln (1865), James Garfield (1881), William McKinley (1901), Warren Harding (1923), Franklin Delano Roosevelt (1945) e John Kennedy (1963), mentre il dimissionario è il citato Richard Nixon (1974).

Fra l’altro, considerato il fatto che, con l’eccezione di Taylor, tutti i presidenti morti in carica erano stati eletti o confermati in votazioni svoltesi in anni che avevano per finale uno zero, proprio di ‘maledizione dell’anno zero’ al riguardo, lungamente e fino a Ronald Reagan (eletto la prima volta nel 1980 e per parte sua sopravvissuto a un attentato), si parlò.

Visto che di decessi di presidenti andiamo trattando, da segnalare una particolarità.

Sia il secondo capo dello Stato americano John Adams che il terzo Thomas Jefferson vennero a morte il 4 luglio del 1926: non solo lo stesso giorno ma in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza (alla cui stesura Jefferson aveva dato un contributo decisivo)!

Caucus e primarie

Negli Stati Uniti, la scelta dei candidati alla presidenza ad opera dei partiti non è in alcun modo regolata dalla Costituzione, che, invece, dedica naturalmente ampio spazio alla vera e propria elezione del presidente.

Al fine, quindi, di ottenere la ‘nomination’ in sede di Convenzione nazionale, le norme in vigore sono quelle dettate dagli statuti interni dei diversi movimenti politici che assegnano, in base ad indici quali la popolazione residente, i voti raccolti durante le ultime consultazioni elettorali, l’incremento o il decremento di suffragi verificatosi tra la penultima e l’ultima elezione e così via, a ciascuno Stato un determinato numero di delegati alla ‘Convention’.

Considerato, poi, che i partiti sono prevalentemente organizzati su base statale, i criteri possono altresì variare da Stato a Stato.

In sintesi, però, i due metodi maggiormente seguiti sono la designazione dei delegati nel corso di assemblee di partito (i cosiddetti ‘caucus’) e l’elezione vera e propria degli stessi attraverso il meccanismo delle primarie.

Queste ultime hanno compiuto cento anni nel 2003 essendo state utilizzate la prima volta a livello statale nel Wisconsin all’epoca governato dal riformatore Robert La Follette appunto nel 1903.

(Per il vero, la Florida rivendica in materia la primogenitura avendo emanato disposizioni in merito, applicate però solo più tardi, già nel 1901.)

Le primarie consentono all’elettore di manifestare direttamente la sua volontà nella nomina dei delegati da inviare alla Convenzione ed, essendo i delegati stessi collegati ad uno degli aspiranti alla ‘nomination’, nella scelta del candidato alla Casa Bianca.

Il sistema fu accolto subito assai positivamente ed ebbe grande successo perché considerato strumento idoneo a combattere il potere delle cosiddette ‘macchine’ dei partiti che, in precedenza, governavano a proprio piacere la scena.

Ogni singolo Stato che abbia accettato le primarie le regola con leggi apposite cosicché se ne possono contare molti diversi tipi.

Peraltro, le due maggiormente adottate sono le primarie ‘chiuse’ e quelle ‘aperte’.

Alle prime possono partecipare solo i simpatizzanti del partito che le ha indette che tali si sono dichiarati in precedenza all’atto dell’iscrizione alle ‘liste elettorali’.

(Per inciso, al compimento del diciottesimo anno di età i cittadini USA hanno diritto al voto che però possono esprimere in concreto solo quanti si iscrivono alle liste elettorali: il diritto c’è ma si deve dichiarare in tal modo di volerlo esercitare).

Alle seconde – le più diffuse – possono prendere parte come votanti tutti i cittadini aventi diritto al voto indifferentemente.

La primaria più celebre ed anche quella che fornisce molto spesso indicazioni definitive sulle preferenze dell’elettorato è quella del New Hampshire che, tradizionalmente, si svolgeva nel febbraio dell’anno elettorale ma che, a partire dal 2000, ha luogo a gennaio.

Per quanto riguarda i caucus, invece, sempre secondo tradizione, il primo e maggiormente significativo è quello dell’Iowa.

Origini, fasti e decadenza delle convention

E’ in previsione delle presidenziali del 1832, che, nel settembre dell’anno precedente, il da poco costituito (a seguito di alcune losche vicende che avevano visto, fra l’altro, il rapimento e l’uccisione di un ‘massone pentito’, tale William Morgan, e in ragione del successivo insabbiamento da parte delle autorità, accusate di essere succubi della massoneria, dell’inchiesta conseguente) partito Antimassonico decise di procedere alla scelta del proprio candidato a White House in una riunione nazionale, tenutasi a Baltimora, alla quale venne dato il nome di ‘convention’.

Per la storia, in quella prima occasione, la scelta cadde su William Wirt, del Maryland.

Imitando l’operato degli antimassonici, gli altri partiti, a loro volta chiamati a congresso, optarono per il presidente uscente Andrew Jackson e per l’ex segretario di Stato Henry Clay.

Jackson vinse alla grande, Clay conquistò sei Stati e Wirt riuscì a catturarne uno.

Dopo una lunga serie di convention abbastanza facili e prive di contrasti particolarmente gravi, eccoci al decisivo 1860 (la sconfitta dei democratici aprì le porte di White House al repubblicano Lincoln con tutto quel che ne segue).

Riunitisi in aprile a Charleston, in Sud Carolina, i delegati del partito dell’asino si trovarono su due differenti fronti in particolare nei riguardi dello schiavismo ragione per la quale decisero di rincontrarsi più avanti, in giugno, a Baltimora.

Colà, il movimento, lungi dal trovare il bandolo della matassa, si divise e i delegati degli Stati del Sud abbandonarono i lavori.

La nomination andò così al senatore Stephen Douglas mentre i dissidenti, organizzatisi, proposero quale loro candidato il vice presidente in carica John Breckinridge.

Sempre ed anche in quella occasione, quando un partito si spacca e presenta più pretendenti alla presidenza, a prevalere è il partito rivale.

Particolarmente contrastata anche la convenzione democratica del 1872 per quanto fosse incentrata sulla scelta di un candidato (alla fine, i delegati ripiegarono sul direttore del ‘New York Tribune’ Horace Greeley) le cui probabilità di successo erano praticamente inesistenti considerando che il pur mediocre repubblicano Grant, allora in carica, era da ritenersi per molte ragioni imbattibile.

Ed eccoci a un braccio di ferro in casa repubblicana: siamo nel 1880 e il partito dell’elefante è diviso in due fazioni.

Parte dei delegati si pronuncia per un terzo mandato di Grant.

Parte opposta si divide al proprio interno fra James Blaine e John Sherman.

La faccenda si risolve solo quando appunto Blaine e Sherman si mettono d’accordo e ritirando le proprie candidature fanno convergere i voti che controllano su James Garfield garantendo, d’altra parte, la vice presidenza all’esponente della avversa congrega Chester Arthur.

Contrasti anche nel successivo 1884 in casa repubblicana (Blaine, prescelto, era assai discutibile sul piano morale) al punto che una fazione annunciò durante la convention l’intenzione di disertare il partito la qual cosa favorì la successiva vittoria del democratico Grover Cleveland.

Ancora nel 1896 forti contrasti in campo repubblicano provocarono l’uscita di un’ala minoritaria di quel partito comunque destinato in quel frangente a vincere.

Nel frattempo, sempre nel 1896, il movimento populista – che aveva acquistato negli ultimi anni un notevole rilievo – nella propria convention prese una decisione unica nella storia USA: scelse William Jennings Bryan che era già stato nominato dai democratici.

Al fine di differenziarsi, propose invece un diverso candidato alla vice presidenza.

Bryan, quindi, nell’occasione, era al primo posto in due ticket mentre al suo fianco correvano due distinte persone.

Fondamentale la convenzione repubblicana del 1912 (in giugno a Chicago) perché fu la prima ad essere tenuta dopo le primarie.

E’, infatti, in quell’anno che il GOP, in tredici Stati, decide di chiedere al popolo quale debba essere il candidato alla Casa Bianca.

Teodoro Roosevelt, tornato dopo quattro anni in pista, stravince le novelle consultazioni ottenendo ben duecentosettantotto delegati contro i quarantotto del presidente in carica William Taft e i trentasei del riformatore Robert La Follette.

A Chicago però, disattendendo il volere degli elettori, la nomination andò a Taft e il partito si trovò ad affrontare una scissione.

I fuorusciti, in agosto ma ancora nella capitale dell’Illinois, fondarono il partito progressista e nominarono Theodore Roosevelt.

A novembre, conseguentemente, pur ottenendo, sommando i suffragi, le due anime repubblicane la maggioranza dei voti, si affermò il democratico Woodrow Wilson.

1924: immigrazione, ku klux klan e proibizionismo con annessi problemi dividono profondamente i democratici che non riescono per ben sedici giorni (la convention è bloccata per questo lunghissimo periodo) a scegliere tra l’ex ministro del tesoro William McAdoo e il governatore dello Stato del New York il cattolico Alfred Smith.

Fatto è che le regole del tempo in quel partito prevedono sia necessaria per ottenere la nomination una maggioranza dei due terzi dei delegati.

Infine, McAdoo e Smith decidono di ritirarsi e al centotreesimo scrutinio passa John Davis che sarà strabattuto da Calvin Coolidge.

Per quanto dipoi amatissimo dagli americani e destinato a vincere addirittura quattro volte, Franklin Delano Roosevelt nel 1932 la sua nomination dovette decisamente sudarsela barattando alla fine e sull’orlo della sconfitta il determinante appoggio del presidente della Camera, il texano John Garner – fino a quel momento, acerrimo rivale – con la candidatura per il medesimo alla vicepresidenza.

Ancora nel 1948 e nuovamente tra i democratici una scissione nel bel mezzo di una convention: escono i cosiddetti ‘dixiecrats’, sudisti arrabbiati con Truman che si riuniscono quindi a Birmingham, in Alabama, fondano il partito democratico per i diritti dei singoli Stati e designano candidato il governatore del Sud Carolina, J. Strom Thurmond.

Per di più, sempre dal corpo democratico, era uscita a sinistra una frangia liberal capeggiata dall’ex vice presidente Henry Wallace.

Ciò malgrado, contro ogni pronostico e smentendo i sondaggi, il presidente Truman vinse agevolmente.

Nel 1952, l’eroe di guerra Dwight ‘Ike’ Eisenhower accetta la proposta dei repubblicani e si presenta alla convention del partito certo di ottenere una facile vittoria.

Non sarà così e solo per un soffio riuscirà a superare Robert Taft, il senatore figlio dell’ex presidente, e i suoi molti sostenitori destrorsi e neoisolazionisti.

Ed eccoci al 1964, al momento in cui il governatore repubblicano progressista dello Stato di New York Nelson Rockfeller viene sconfitto brutalmente dall’ultraconservatore senatore dell’Arizona Barry Goldwater.

L’ultima, ad oggi, convention davvero controversa è quella democratica del 1968.

(Quella, repubblicana, del 1976 che vide Gerald Ford prevalere sul futuro presidente Ronald Reagan che si rifarà quattro anni dopo, al confronto, è una passeggiata).

A Chicago, nel mentre all’esterno la polizia carica e disperde a bastonate migliaia di dimostranti pacifisti (la guerra del Vietnam feriva tutti e tutto), il partito si trova al termine delle primarie senza una precisa indicazione.

Nessuno ha conquistato abbastanza delegati e pertanto, alla fine, la nomination va al vice presidente in carica Hubert Humphrey che neppure aveva partecipato alle predette primarie.

Da allora – complice il fatto che i grandi elettori da conquistare sono solo il cinquanta per cento più uno e non i due terzi – una sequela di convenzioni già decise in partenza, nelle quali il risultato è scontato perché uno dei candidati ha raccolto intorno a sé il numero di delegati sufficiente per ottenere la nomina al primo scrutinio.

Così, per venire alle ultime convention, nel 2008 sia tra i repubblicani che tra i democratici – malgrado la forte resistenza della comunque sconfitta Hillary Rodham Clinton – così in casa repubblicana (dall’altra parte, ovviamente, Obama correva da solo) nel 2012.

Il Segretario di Stato

John Kerry è formalmente il sessantanovesimo Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America.

Per il vero, però, avendo, nell’ordine, James Monroe, Daniel Webster e James Blaine ricoperto l’alto incarico due volte, Kerry è il sessantaseiesimo individuo chiamato a dirigere il ministero degli esteri americano.

Come è ovvio, data l’importanza dei rapporti internazionali, già nel primo gabinetto formato da George Washington nel 1789, per quanto fosse costituito da soli cinque ministri, era presente un Segretario di Stato.

Tra le più eminenti personalità che hanno preceduto nel lungo volgere di oltre due secoli il predetto Kerry, da ricordare in particolare i futuri presidenti (la carica è stata, esclusivamente nei primi decenni, un buon trampolino di lancio verso la Casa Bianca) Thomas Jefferson, che inaugurò la serie appunto accanto a Washington, James Madison, James Monroe, John Quincy Adams, Martin van Buren, James Buchanan ed altre eminenti personalità quali John Marshall (che sarà poi presidente della Corte Suprema dal 1801 al 1835); Henry Clay, più volte, invano, candidato allo scranno presidenziale; William Seward, ministro degli esteri di Lincoln; John Hay, che dovette vedersela con quel “matto di un cow boy” (come lo chiamava Mark Hanna) di Teodoro Roosevelt; William Jennings Bryan, in precedenza sconfitto in tre occasioni nella corsa verso White House; Cordell Hull, tra i massimi collaboratori di Franklin Delano Roosevelt; George Marshall che, presidente Harry Truman, diede il proprio nome al celebre Piano di assistenza economica all’Europa messo in funzione nel secondo dopoguerra; John Foster Dulles, a fianco di Eisenhower in piena Guerra Fredda; Henry Kissinger, mente ed esecutore della grande politica estera nixoniana; Edmund Muskie, già battuto in campo democratico nelle primarie del 1972; James Baker, fedelissimo di Ronald Reagan; Madeleine Albright, la prima donna, scelta da Bill Clinton; Colin Powell, il primo nero, voluto da George Walker Bush, l’ottima Condoleezza Rice e l’ex first lady Hillary Rodham Clinton. Da notare, considerato che, come detto, i Segretari di Stato sono stati sessantanove mentre i presidenti solo quarantaquattro (anche qui, formalmente, ove si tenga conto del fatto che Grover Cleveland è conteggiato due volte avendo ottenuto due mandati non consecutivi), che assai spesso al fianco di un singolo capo dello Stato si sono susseguiti due o più ministri degli esteri.

Così, del resto, già con Washington che nel secondo suo quadriennio in sostituzione di Jefferson nominò dapprima Segretario di Stato Edmund Randolph e in seguito Timothy Pickering.

Per quanto l’incarico sia da considerare di grande prestigio, non va mai dimenticato che il sistema costituzionale americano prevede che, come tutti gli altri ministri, il Segretario di Stato sia scelto dal presidente (con l’avviso e il consenso del Senato), ragione per la quale l’unico supporto per la permanenza in carica è rappresentato proprio dalla volontà del capo dello Stato che può revocare l’incarico in ogni e qualsiasi momento ad nutum e cioè senza possibilità di opposizione da parte dell’interessato né di chiunque altro.