Millard Fillmore, ‘navi nere’, Giappone, necessità e fraintendimenti

1852, Millard Fillmore – il successore del deceduto in carica Zachary Taylor del quale (come del resto del predecessore) si parla raramente ritenendolo poco interessante (errore grave!) – siede a White House.
Da qualche decennio, gli Stati Uniti cercano di aprire al commercio il Giappone.
Quando possibile, perfino inviando navi che battono falsamente bandiera olandese, l’Olanda essendo il solo Paese al quale fosse concesso intrattenere rapporti col Sol Levante utilizzando per la bisogna l’isola artificiale di Dejima.
Vuole Fillmore mettere fine all’impasse e ordina una spedizione navale, armata di tutto punto, che ottenga, arrivando in Giappone, l’agognata apertura.
Tre le navi (alle quali si aggiungerà una quarta a Canton) che partono dalla Virginia il 24 novembre del 1852.
(Per quanto il 2 novembre dello stesso anno venga eletto Capo dello Stato Franklin Pierce, resterà il nostro Millard nella Executive Mansion fino al successivo 4 marzo ed è comunque ai suoi ordini e seguendo le di lui direttive che la predetta spedizione parte, si muove e conclude).
Al comando, il Commodoro Matthew Calbraith Perry, reduce da mille vittoriose battaglie.
Lunga – naturalmente, dati i tempi e i mezzi – la navigazione di vascelli che, dal colore delle fiancate, saranno chiamati, certamente con riferimento alla loro pericolosità, ‘navi nere’.
Molte le soste lungo la via.
È l’8 luglio del 1853 il giorno dell’arrivo nella Baia di Tokyo (allora, di Edo).
Impossibile una efficace reazione da parte di una organizzazione militare e di una Marina decisamente meno equipaggiate quali quelle nipponiche dell’epoca con armamenti desueti.
Era latore il buon Commodoro di una lettera che intese – violando il locale diritto e il protocollo diplomatico – consegnare direttamente ai rappresentanti imperiali nella capitale.
Scriveva Fillmore (indirizzando il messaggio all’Imperatore che definiva “mio grande ed ottimo amico”):
“… il popolo americano pensa che se Vostra Maestà Imperiale decidesse di cambiare le antiche leggi in modo da consentire un libero commercio tra i due Paesi ne verrebbe grande beneficio a entrambi”.
Continuava elencando le richieste in merito e infine proponendo, ove un Trattato definitivo non fosse ritenuto possibile, un periodo di prova, provvisorio, concludendo con la frase:
“Gli Stati Uniti limitano spesso la validità dei loro Trattati con Stati esteri a qualche anno riservandosi di rinnovarli o no a loro piacimento”.
La ponderata e inevitabilmente cortese risposta spiegava che per quanto i mutamenti richiesti fossero “con la massima chiarezza vietati dalle leggi dei nostri imperiali antenati”, a motivo della constatata “necessità imperativa”, la Corte li avrebbe considerati in quanto “sembra che rimanere devoti ad antiche leggi sia da parte nostra un fraintendimento dello spirito del tempo”.
Vicenda – quella occorsa e qui narrata – vista con gli occhi del dopo, che annunciava un cambiamento epocale, la fine di una lunghissima epoca di isolamento.
Quindici anni ancora e nel 1868 verrà difatti a chiudersi l’epoca feudale giapponese, risalente addirittura al 1192, organizzata nello ‘Shogunato’.
Annunciava la fine, ho scritto.
Contribuiva fortemente a causarla, si potrebbe dire.
Morirà Fillmore nel marzo del 1874, oltre cinque anni dopo.
Mi chiedo se ritenesse o meno, e in quale misura, conseguenza dell’ordine da lui dettato nel 1852 a Perry il passaggio del Giappone dal Medio Evo alla modernità.