Memorabilia: marzo 1991, settembre 1992, elettoralmente parlando, un precipizio

Vincere una guerra fa bene.
Politicamente parlando.
Correva il mese di marzo del 1991 e un George Herbert Bush appena uscito trionfante da quella del Golfo (conclusa il 28 febbraio precedente), in un affidabile sondaggio Gallup, si vede attribuire un eccezionale indice di gradimento – si badi bene, non tra i suoi repubblicani ma tra gli Americani in genere – dell’ottantanove per cento!
Pressoché un anno e mezzo dopo, nel 1992, di settembre, un’altra rilevazione del medesimo istituto documenta il crollo della fiducia dei cittadini nei suoi confronti: dall’ottantanove di cui sopra al trentadue!
Ed è quello l’anno elettorale.
L’anno nel quale G. H. si gioca un secondo mandato.
Certo, la memoria degli elettori è corta.
Lo è riguardo a praticamente tutto tranne che alle questioni economiche.
Alle crisi.
In particolare, se persistenti e non adeguatamente – quantomeno nella percezione generale – affrontate.
Una seconda cosa gli elettori rammentano quando occorre: le promesse non mantenute.
Ebbene, quanto alla prima questione, la stagnazione/crisi è in atto da tempo (si dice addirittura dal 1990) e la differenza con altre precedenti consimili è che tocca anche l’élite professionale e manageriale della Costa Orientale del Paese e grandi aziende, quali le telefoniche e la IBM, che sono costrette a licenziare quando da sempre si vantavano di non averlo mai fatto.
Quanto alla seconda, non aveva forse Bush fatto una ben precisa promessa durante la campagna 1988?
Non aveva detto:
“Ascoltatemi bene: niente nuove tasse!”?
Promessa disattesa quasi subito il cui mancato mantenimento gli nocque grandemente?
Certo ancora, quel per lui dannato 1992 ne vide di tutti i colori elettoralmente parlando (l’arrivo sulla scena di un rampante Bill Clinton e l’inaspettata concorrenza a destra di un abile indipendente di grandi disponibilità quale si rivelò essere il texano Ross Perot).
Non avesse però imperversato la crisi economica, l’ex Governatore dell’Arkansas avrebbe avuto molto meno gioco ed agio e il miliardario di Texarkana non sarebbe probabilmente sceso in campo.
Con i se e i ma non si cava un ragno dal buco ma quale migliore conferma (e peggiore minaccia per un Donald Trump eventualmente precipitato, Coronavirus causa, nella crisi) che le difficoltà economiche – a parte e mai dimenticando le sofferenze di molti – sono le prime da evitare elettoralmente parlando?