Trump 2016 = Jackson 1824?

1824, Stati Uniti d’America.

Espressione ultima della grande aristocrazia agraria americana – cui sostanzialmente si deve la nascita della nazione, cui si devono il progetto e la creazione delle straordinarie basi istituzionali e giuridiche sulle quali si regge da sempre e ancora oggi il Paese –   John Quincy Adams, figlio del secondo presidente John Adams, magnificamente allevato per governare, già protagonista (per citare solo uno dei mille mandati eseguiti con successo) della Pace di Gand che aveva concluso la Guerra del 1812 con gli inglesi, a lungo diplomatico in Europa, grande segretario di Stato (e in tale veste, vero estensore di quella che da allora è nota come ‘dottrina Monroe’) del presidente uscente, appunto James Monroe, si candida, direi naturalmente, a White House.

Suoi competitor – e vedremo subito in qual modo scelti (ricordo che la ‘convention’ sarà introdotta dal partito antimassonico nel meccanismo elettorale solo dal 1831 e dipoi da tutti adottata) – Henry Clay, William Crawford e Andrew Jackson, tutti formalmente aderenti al suo stesso partito, il democratico-repubblicano.

Ho appena definito la candidatura di John Quincy Adams ‘naturale’ ma tale non fu affatto considerata all’epoca tanto che una parte dei congressisti democratico-repubblicani gli preferirono William Crawford della Georgia, del resto designato dal predetto Monroe come suo gradito successore.

Il secondo Adams viene quindi, in un clima di contrapposizione, investito successivamente in quel di Boston da quanti tra i congressisti non volevano il georgiano.

Ma non finisce qui perché il parlamento del Kentucky, in disaccordo, propone l’allora presidente della camera Henry Clay, mentre ancora il parlamento del Tennessee acclama e investe un personaggio fino a quel momento estraneo alla politica, il generale Andrew Jackson, eroe nazionale fin da quando (non ultima delle sue imprese militari), nel gennaio 1815, aveva sconfitto gli inglesi nella celeberrima e celebrata – per quanto inutile, visto che la pace era già stata firmata – Battaglia di New Orleans.

E’ pertanto quella del 1824 una campagna elettorale anomala considerato che le precedenti – con l’eccezione della tornata datata 1800 che aveva visto Thomas Jefferson e Aaron Burr arrivare alla pari come numero di delegati con conseguenze notevoli (decisione demandata alla camera, sconfitta di Burr al trentaseiesimo scrutinio, sconfitta determinata da Alexander Hamilton che sarà poi nel 1804 ucciso in duello dal rivale, unico caso di un vice presidente, tale era a quel momento Burr, coinvolto in fatti di sangue di tale gravità) – si erano svolte tra gentiluomini praticamente sapendo in partenza chi avrebbe vinto, sostanzialmente col beneplacito dei contendenti.

Lotta dura e risultati del tutto particolari.

Jackson conquista la maggioranza dei voti popolari e dei delegati: novantanove.

Un buon bottino ma non sufficiente visto che non arriva a superare il fatidico cinquanta per cento.

Dopo di lui, tutti con un sempre minor numero di voti e conseguente attribuzione dei grandi elettori, John Quincy, ottantaquattro delegati, Crawford quarantuno, Clay trentasette.

Il generale chiede da subito alla camera dei rappresentanti (per Costituzione, in un caso del genere, non avendo nessuno raggiunto la maggioranza assoluta, spetta proprio a quel consesso il pronunciamento decisivo, una scelta che deve essere fatta tra i primi tre candidati così come classificati) l’investitura.

Non è forse lui che ha ricevuto il più ampio consenso sia in termini di voto popolare che di conseguenti delegati?

Fuori gioco Crawford – preda di un colpo apoplettico non può certamente concorrere – escluso perché arrivato quarto Clay, la scelta è obbligatoriamente tra Jackson e John Quincy Adams.

E’ a questo punto che il presidente della camera decide di invitare i suoi a pronunciarsi per J.Q il quale, pertanto, viene eletto presidente.

Polemiche a non finire.

Contrapposizioni che si accentuano allorquando Adams sceglie proprio Clay come suo segretario di Stato.

Naturalmente, si grida allo scandalo, al ‘mercato delle vacche’.

A seguire, divisione interna al partito e nascita di due movimenti: quello dei repubblicani nazionali, sostenitori di Adams e Clay, e quello dei nazionali democratici, sostenitori di Jackson.

Da questi ultimi, nascerà più oltre il partito democratico ancora oggi – con quello repubblicano che vedrà la luce nel 1854 – imperante.

Quello che segue è un quadriennio presidenziale a dir poco tormentato durante il quale si verifica senza tema di smentita che il capo dello Stato USA non è affatto svincolato e libero di agire, in specie se deve confrontarsi con una maggioranza parlamentare non solo ostile ma decisa a combatterlo.

Moltissimi anni dopo, Gerald Ford dirà: “L’unica cosa che può decidere da solo un presidente è quando andare al gabinetto!”

Così, John Quincy Adams, che tutte le premesse indicavano come un presidente coi fiocchi, date le circostanze, fallì.

Sarà poi nel successivo 1828 che Jackson lo defenestrerà portando a termine quella che ho definito ‘la seconda rivoluzione americana’ (la prima essendo, ovviamente, quella per l’indipendenza) che coincise con il passaggio del potere dalla citata aristocrazia (di cui, quindi, ripeto, J.Q. fu l’ultimo rappresentante) e la borghesia.

Per inciso, al riguardo e a proposito del passaggio di consegne tra i due a dir poco burrascoso, invito a leggere i testi di Maldwyn Jones, di Allan Nevins e Henry Steele Commager e il mio ‘Americana’.

Ciò detto e narrato, quali le possibili connessioni con la campagna elettorale in corso in questo 2016?

Non è del tutto evidente che oggi, come nel 1824 nel caso di Jackson, corre per la presidenza un candidato (a dire il vero, in parte in quanto comunque senatore, due, se si guarda anche, in casa democratica, a Bernie Sanders, ma glissiamo) decisamente fuori dagli schemi e fino alla discesa in campo mai impegnato direttamente in politica?

Un pretendente al trono inviso all’establishment del suo partito che lo considera un corpo estraneo da respingere?

Un ‘fuorisistema’ che però attrae gli elettori appunto stanchi del ‘sistema’ dominante e pronti a cercare altrove dalla politica militante possibili soluzioni anche se, forse?, improbabili?

Un ‘maverick’ nel primo senso di ‘vitello non marchiato’ e pertanto libero, non ricompreso in una mandria, e nel secondo di persona non appartenente a una consorteria partitica ma indipendente?  

A queste domande, occorre rispondere di sì.

E nelle vesti che all’epoca furono di J.Q. non possiamo adesso mettere Mitt Romney che moltissimo si agita, da ‘vecchio’ repubblicano, per sbarrare la strada a Trump?

Perché, come chiunque ha subito capito, è di Donald Trump e della sua avventura che qui si parla e si deve parlare.

E v’è grandemente da temere, come nel 1824 per il partito democratico-repubblicano, per il futuro del Grand Old Party.

Specie se in una possibile e da molti repubblicani auspicata ‘brokered convention’, non avendo il nuovayorchese ottenuto nel corso delle primarie la maggioranza assoluta dei delegati ma essendo comunque in netto vantaggio, gli si negasse la nomination.

Una successiva sua candidatura da indipendente (se non addirittura da fondatore-leader di un altro movimento) porterebbe certamente il GOP sul ciglio del baratro e tutto questo in una temperie già, per infinite altre ragioni e contingenze, contraria al partito che fu di Lincoln, Teddy Roosevelt e Reagan.

Analogie.

Ipotesi.

Scenari.