5 febbraio 1825, una data davvero memorabile

Per la seconda e ultima volta (sarebbe divertente si ripetesse e comunque, rispetto alla precedente – che nel 1801 aveva richiesto addirittura trentacinque votazioni avanti di risolvere alla successiva la questione tra Thomas Jefferson e Aaron Burr – assai più velocemente dato che le Delegazioni arrivarono al richiesto esito al primo ballottaggio), il 5 febbraio 1825, la Camera dei Rappresentanti fu chiamata ad eleggere il Presidente visto che le votazioni popolari condotte tra il 26 ottobre e l’1 dicembre del precedente 1824 non avevano portato a conclusivi risultati.
Ventiquattro gli Stati allora chiamati alla nomina di totali duecentosessantuno Grandi Elettori.
Centotrentuno, quindi, la maggioranza assoluta richiesta, che nessuno dei quattro candidati in corsa – tutti espressione del partito democratico/repubblicano che dal 1800 ininterrottamente prevaleva quanto alla Presidenza – aveva raggiunto.
Il Generale Andrew Jackson, indicato dal Tennessee, contava difatti su novantanove delegati al Collegio Elettorale.
Il Segretario di Stato in carica John Quincy Adams su ottantaquattro.
Il Ministro del Tesoro in atto William Crawford su quarantuno.
Lo Speaker della Camera Henry Clay su trentasette.
(Un vero ‘parterre de roi’, peraltro, quello proposto e si pensi che tra gli aspiranti al ruolo vicario poi ritirati erano anche Albert Gallatin e William Rufus King!).
È quello della votazione del Presidente ad opera della Camera uno dei due momenti nei quali più chiaramente si afferma il principio – derivante necessariamente dal fatto che gli Stati Uniti d’America sono un Paese federale – che gli Stati hanno tutti pari dignità, nulla pesando (come ai fini della elezione dei Senatori, comunque e sempre due) nella bisogna il numero degli abitanti e contando uno e solamente uno ciascuna Delegazione.
In cotale situazione e circostanza, essendo la scelta obbligata tra i primi tre classificati quanto al suffragio popolare ed escluso conseguentemente Henry Clay, l’esito (si ripete, al primo ballottaggio) fu
– tredici Stati, e cioè la prescritta maggioranza, a favore di John Quincy Adams
– sette per Andrew Jackson
– quattro per William Crawford.
Si espressero per il Segretario di Stato e dal seguente 4 marzo inquilino di White House
Connecticut
Illinois
Kentucky
Louisiana
Maine
Maryland
Massachusetts
Missouri
New Hampshire
New York
Ohio
Rhode Island
Vermont.
Optarono per Jackson
Alabama
Indiana
Mississippi
New Jersey
Pennsylvania
South Carolina
Tennessee.
Per Crawford
Delaware
Georgia
North Carolina
Virginia.
Convinto di essere vittima di un imbroglio (Clay, che peraltro non lo sopportava, fece confluire su Adams i voti degli Stati sui quali influiva e in cambio fu poi nominato Segretario di Stato), Jackson contestò il risultato ed è a seguito di tale ingarbugliato esito camerale che il partito democratico/repubblicano entrò in una fatale crisi dissolutiva.
Nasceva ad opera dei jacksoniani il partito democratico che ben conosciamo.
Partito che, defenestrando nel 1828 J. Q. Adams, l’ultimo ‘aristocratico’, avrebbe portato al governo del Paese la nascente e scalpitante borghesia.