Elezioni USA e una ‘vera’ grande firma: Giovanni Spadolini

Credo sia qui opportuno (necessario) riportare la parte conclusiva delle argomentazioni vergate nel 1980 da uno dei pochi ‘grandi’ del giornalismo, Giovanni Spadolini.
Si occupa da par suo del confronto Carter/Reagan.
Corre il 10 novembre e La Stampa pubblica ‘L’America di Carter e quella di Reagan’.
Ecco:
“A distanza di quattro anni dall’elezione di Carter, una certa immagine dell’America è completamente cambiata, tutte le speranze di allora si sono dissolte o vanificate. L’avvento di Carter volle dire il rilancio di una certa America, rooseveltiana e kennediana: l’America dei diritti civili e della indivisibilità di tutte le libertà, l’America che abbandona al suo destino le dittature latino-americane e non impiega la Cia per salvare regimi traballanti od oppressivi nell’intera sfera del Terzo mondo, l’America che non crede alle astuzie ‘metternichiane’ di Kissinger nelle relazioni fra i blocchi e nei rapporti fra gli Stati, l’America che si sente profondamente ‘europeista’ e ‘illuminista’, rifuggendo da qualunque tentazione di isolazionismo, da qualunque orgoglio di solitaria e sprezzante autonomia imperiale.
Un’America moralista, puritana, quasi virtuosa; l’America che spiega la politica generosa ma spesso innocente di Carter, che sta alla base della sua imprevedibilità e della sua nevrosi, che contiene in sé i germi dei suoi fallimenti e dei suoi errori ma anche delle sue grandezze (Camp David, per esempio).
Per gli europei, e soprattutto per gli europei di fede democratica, l’America di Carter era molto più di casa di quanto non sia l’America di Reagan: col suo liberismo sfrenato, col suo individualismo orgoglioso, col suo primitivismo aggressivo, con la sua istintiva diffidenza verso un’Europa giudicata elemento di confusione o di corruzione (il partito di Reagan è stato avverso, nel corso di un secolo, all’intervento americano sia nella Prima sia nella Seconda guerra mondiale: c’era perfino un’ala fra il ’38 e il ’39 che sarebbe stata disposta a trattare con Hitler).
E’ un’America che considera il ‘New Deal’ un errore, la politica di intervento dello Stato nell’economia un riflesso del ‘demonio’ socialista (cui si oppone il puritanesimo liberistico, dell’uomo che fa da sé), la ‘Nuova Frontiera’ un fantasma che sta fra la retorica e l’utopia: un giornalista penetrante e malizioso ha parlato per Reagan di un “Roosevelt capovolto”.
Le radici ideali sono una cosa; le varianti tattiche un’altra.
Gli elementi di continuità fra i due Presidenti, soprattutto nella sfera internazionale, supereranno di gran lunga le differenziazioni o addirittura le antinomie fra i personaggi, fra i loro retroterra culturali, fra le ispirazioni differenziate, o addirittura contrastanti delle due visioni della vita e del mondo.
Ho visto Reagan una sola volta, a Los Angeles, insieme con Saragat e Fanfani; e il Presidente del Senato lo ha ricordato sere fa in un affollato dibattito televisivo sulle prospettive della nuova amministrazione americana, cui abbiamo partecipato entrambi.
Eravamo nel settembre del 1967; il Presidente Saragat compiva il suo famoso giro del mondo, di pace e di amicizia, quel giro che partì dal Canada per concludersi nei sultanati del Golfo Persico.
Il governatore della California ci ricevette in un grande albergo di Los Angeles: forse lo stesso che aveva scelto a quartier generale della sua campagna presidenziale (non meno che della prima conferenza stampa post-elezione).
Giungevamo da Washington; il pranzo alla Casa Bianca, in onore di Saragat, che finiva in quel giorno sessantanove anni, era stato funestato da un incidente diplomatico, da un momento di incomprensione fra il Capo dello Stato italiano e il presidente Johnson, un democratico tollerante su tutto tranne che sulla questione vietnamita nella quale non accettava consigli o suggerimenti da nessuno, e neanche dagli alleati europei.
Certi rilievi di Saragat, che adombrava una linea morbida, di negoziato, agli Stati Uniti, avevano suscitato l’irritazione del padrone di casa.
Il clima che si respirava a Los Angeles, in quell’isola repubblicana, era di fermezza e di durezza ancora maggiori di quella della Casa Bianca, in materia di Vietnam, e in genere di equilibri internazionali.
La difesa del prestigio imperiale degli Stati Uniti toccava vertici sconosciuti alla linea tanto più cauta e prudente dei democratici al governo.
Eppure, quattro anni più tardi, sarebbe stato un Presidente repubblicano a liberare gli Stati Uniti dalla tragedia vietnamita: con una spregiudicatezza inconcepibile non dico per Kennedy ma anche solo per un Johnson.
Un paradosso che arriva fino a Reagan”.