Gli sconfitti: Adlai Stevenson, ‘Testa d’uovo’ (‘Egg-Head’)

Adlai Ewing Stevenson II nasce a Los Angeles il 5 febbraio del 1900 e muore a Londra il 14 luglio 1965.

Campagna elettorale per White House del 1952.
Al tramonto Harry Truman (potrebbe ricandidarsi – perché il Ventiduesimo Emendamento del 1951 pone sì limiti in merito al numero dei mandati, limiti che però, come d’uso, non riguardano il Presidente in carica – ma non lo fa o, meglio, solamente, vi accenna), il Partito Democratico, in quel di Chicago come farà anche quattro anni dopo in occasione della sua seconda Nomination, per affrontare – compito davvero ingrato data la considerazione e la fama, roba da far tremare i polsi – il forte candidato repubblicano già nominato Generale Dwight ‘Ike’ Eisenhower (da tutti considerato sic et simpliciter ‘il vincitore della Seconda Guerra Mondiale’ e non è poco), opta per il fino ad allora abbastanza defilato Governatore dell’Illinois Adlai Stevenson.
Uomo “veramente schivo”, lo definisce – a mio modo di vedere non del tutto cogliendone il tratto – Maldwyn Jones nella sua imperdibile ‘Storia degli Stati Uniti d’America’.

È nel corso della seguente contesa che, ispirato dalle fattezze facciali di Adlai (fronte molto alta e calvizie accentuata), intendendo aggredirne l’astrattezza con qualche venatura d’orientamento omosessuale nel caso del tutto immotivata, lo scrittore Louis Bromfield (non, come viene comunemente detto, l’allora candidato Vice repubblicano Richard Nixon, che usò successivamente l’espressione a man salva) lo definisce ‘Testa d’uovo’ (‘Egg-Head’), termine che avrà larga diffusione per un paio e poco più di decenni, e sarà appioppato dagli avversari politici con sottesa disistima anche ai consiglieri di John Kennedy.
Termine al cui utilizzo Adlai risponderà ironicamente dicendo “Teste d’uovo di tutto il mondo, non avete da perdere che il vostro tuorlo”.

È nel mentre di quel certame che a Stevenson, il quale aveva appena terminato una pubblica conferenza (lo storico Robert Remini, in quest’ambito, lo considera “probabilmente l’oratore più dotato”), una spettatrice, avvicinatasi, dice:
“Tutte le persone intelligenti voteranno per lei’, ricevendo in cambio un “Non basterà, Signora. Occorre la maggioranza!”, amara, consapevole risposta che denuncia l’inconsistenza di fondo della democrazia.
E in effetti, come scrive ancora Maldwyn Jones, “lo spirito e l’eloquenza di Stevenson gli accattivarono gli intellettuali ma non riuscirono a scuotere la massa dei votanti”.
(Il solo momento nel quale si pensò potesse anche farcela fu quando nella fase finale del confronto scese in campo al suo fianco un sempre volitivo ed efficace Harry Truman, purtroppo per lui però invano).

Elitario per formazione (arrivò al punto d’interrompere la serie di necessariamente incalzanti manifestazioni elettorali per due tre giorni per isolarsi e limare adeguatamente a suo modo di vedere un discorso e questo mentre gli organi interni al movimento addetti alla propaganda, orfani, anche ferocemente, scalpitavano), il Nostro cercherà di attenuare il proprio cerebralismo astratto nel 1956, allorquando scelto una seconda volta dal partito (non pochi dei cui maggiori esponenti, temendo a debito del per la conferma in corsa Eisenhower una débâcle, evitarono di proporsi).
Sempre Jones, ricorda che nella circostanza adottò “un tono meno elevato facendo deliberatamente errori di grammatica”, con risultati alla fine nelle urne peggiori rispetto a quelli del 1952.
Peraltro – ricco (lo era anche di famiglia, ma questa è un’altra storia) di discordanze e sicuramente memore di quanto a riguardo aveva vergato Walt Whitman (“Ci sono contraddizioni in me? Certo. Sono immenso. Contengo moltitudini!”) – chiese ed ottenne nel campo della critica economica il contributo dell’ottimo John Kenneth Galbraith, al quale, data l’importanza che il Vice aveva assunto nell’amministrazione in carica, disse “Voglio tu scriva i discorsi contro Nixon” e “Non devi avere nessuna pietà!”

Per quanto Gore Vidal, in un breve passaggio della sceneggiatura cinematografica del suo notevole ‘The Best Man’, 1964, ad opera di una sedicente ‘rappresentante dell’elettorato femminile’, additi tra i massimi e più gravi (considerati i tempi) difetti di Stevenson quello “di non essere sposato e di scherzare al riguardo”, in verità, a tale proposito, la sua era una situazione particolare perché la consorte Ellen Borden, dalla quale aveva avuto tre figli, assolutamente repubblicana (lo sottolinea un in fondo divertito Raymond Cartier nello splendido ‘Le cinquanta Americhe’, 1962) e di carattere, non sopportando (lo preferiva quale in precedenza, quando poteva dire: “Poverino, sempre l’assistente di qualcuno!”) il suo proporsi già per il Governatorato per i democratici, aveva divorziato!

Due le particolarità che lo videro protagonista nel campo, diciamo così, tecnologico.
È in primo luogo – ricorda Jill Lepore in ‘These Truths’, 2018, entrambi gli episodi – durante la trasmissione televisiva della CBS che segue lo spoglio il 4 novembre 1952 (giorno nel quale si arrivava al dunque nel suo contendere con Eisenhower) che viene usato, sia pure non in studio ma attraverso collegamenti con Philadelphia, un Univac, un computer cioè e con esiti non negativi quanto alle previsioni.

Poi, benché siano da tutti considerati come i dibattiti televisivi inaugurali (si diede il via il 26 settembre e altri tre fecero seguito per quanto nella memoria collettiva ne permanga solo uno) fra candidati quelli della storica campagna 1960 Kennedy/Nixon, così non è perché invece a dare il là – ideandoli e attivandosi perché a Miami, negli studi della ABC, avesse svolgimento il primo – a questi ancora oggi ritenuti assai significanti confronti fu proprio, in ambito limitatamente partitico è vero, Adlai Stevenson discutendo nel 1956 con il contendente la Nomination democratica Estes Kefauver (correva il 21 maggio) che sarebbe poi stato con lui nel ticket demolito dal repubblicano ‘Ike’ il successivo 6 novembre.
Moderatore nella circostanza – sarà pur giusto ricordarne il nome dato che fu il primo, no? – il già direttore dell’American Civil Liberties Union, Quincy Howe.

(Sempre ad illustrare questo politicamente almeno ‘strano’ individuo, “dotato di amicizie forti, a volte fanatiche, molta intelligenza, troppo spirito e un fascino che sa usare”, e i suoi dubbi – il citato Raymond Cartier aveva sentenziato che un Presidente deve essere per l’ottanta/novanta per cento decisionista mentre Stevenson lo era per il poco che resta – proprio con riferimento alla televisione che come visto usava, disse in una circostanza agli spettatori:
“Posso parlarvi ma non posso ascoltarvi. Non posso ascoltare i vostri problemi… Per farlo, devo uscire di qui”).

Nel citato 1960 – “Non voglio, ma vorrei” – pronunciate l’anno precedente parole quali “Mi piacerebbe che trasformassimo la nostra grottesca campagna presidenziale in un grande dibattito condotto in favore del popolo” – dichiarò ammiccando di non aspirare a una terza Nomination.

Nel corso della campagna, non si espresse per John Kennedy (definito da un editorialista ‘Uno Stevenson con le palle’) che poi appoggiò convintamente una volta scelto.
Riteneva gli spettasse nella nuova amministrazione il ruolo di Segretario di Stato.
Non lo ottenne, venendo invece, alquanto deludentemente?, nominato Ambasciatore all’ONU.
Fu in questo ruolo a rappresentarsi quale equilibrato, e non ascoltato, consigliere di Kennedy nei roventi giorni (ottobre del 1962) della crisi conseguente la scoperta della installazione a Cuba dei missili sovietici.
Come si vede fuggevolmente in ‘Thirteen Days’, pellicola non certamente memorabile datata 2000, ritiene necessaria a dare una spinta determinante alla soluzione del pericoloso impasse la mediazione dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Maha U Thant.
Nella evenienza, sarà altresì vincente protagonista di un serrato confronto con il Rappresentante sovietico in aula ONU Valerian Zorin.

Morirà Adlai Ewing Stevenson II (il cui omonimo nonno era stato Vice di Grover Cleveland dal 1893 al 1897) relativamente giovane, a Londra per un attacco di cuore, a poco più di sessantacinque anni.

Avanti di chiudere, una consonanza forse inimmaginabile del Nostro con un uomo decisamente di tutt’altra pasta, Winston Churchill (che, quanto segue fra poco a parte, secondo il biografo principe del grande Statista, Andrew Roberts, nel 1952, faceva nascostamente il tifo per Adlai contro Eisenhower nelle Presidenziali tanto da arrivare a dire a risultato acquisito “Sono molto contrariato”).
Ora, nel 1895, sulla via di Cuba, un giovane Winston, facendo tappa a New York, fu accolto da Bourke Cockran, un parlamentare americano che nei dieci anni successivi ebbe su di lui notevole influenza in specie nel modo di conversare e nello stile oratorio.
Fu sessant’anni dopo, nel 1955, che sentendolo citare a memoria lunghi estratti dei discorsi di Cockran, stupefatto, Adlai Stevenson gli disse: “È stato anche il mio modello”.

Infine, ad illustrare cosa pensasse di sé, la frase pronunciata dopo la sconfitta del 1952, prima di inviare a Dwight Eisenhower un telegramma degno di un gentiluomo:
“Io sono troppo grande per questo.
Ma fa troppo male per riderne”.

Mancava Adlai “della semplicità e brutalità dei conduttori di popoli”, affermarono alcuni.
Verissimo e, dal un mio particolare punto di vista, per fortuna.
Chapeau!

28 marzo 2024