Il vantaggio dell’incumbent

Quattro degli ultimi cinque Presidenti in carica e desiderosi di ottenere un secondo mandato (Ronald Reagan, Bill Clinton, George Walker Bush e Barack Obama, nell’ordine) ci sono riusciti e con relativa (Reagan, invero, travolgendo il rivale) facilità.
(Per inciso, il George Herbert Bush, di contro sconfitto da Clinton nel 1992, ebbe anche da competere con un ‘terzo’ di particolare peso, Ross Perot).
Naturale che il Capo dello Stato, forte di quasi quattro anni di governo, quanto a notorietà e salvo abbia combinato disastri, parta avvantaggiato.
Ma va anche tenuto conto del fatto che lo stesso può concentrare tutte le sue cartucce e tutti i suoi fondi su un solo scontro/confronto politico essendo normalmente senza oppositori interni.
(A dimostrazione e controprova, Jimmy Carter, invece sfidato seriamente per la nomination 1980 da Ted Kennedy, respinto che lo ebbe, fallí a novembre).
L’oppositore segue tutto un differente percorso dovendo prima affrontare Stato per Stato nella maratona delle Primarie i rivali per l’investitura, logorandosi e dando fondo ai contributi ricevuti poi mancanti nel confronto finale.
E in realtà – ove si escludano i due Adams e Van Buren tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento – i Presidenti ricandidati a sconfitti senza successivi ritorni (è il caso di Grover Cleveland) sono davvero pochi: Benjamin Harrison, William Taft, Herbert Hoover, Jimmy Carter, il citato Bush senior e – volendo includerlo anche se protagonista di una storia diversa – prima di questi ultimi due, Gerald Ford.
Guardando all’oggi, in effetti, per quanto i tre sfidanti GOP di Trump si diano da fare, la descritta situazione va riproponendosi.
Il tycoon – richiesta di Impeachment a parte – non dovendo pensare a difendersi in casa, sta benissimo.
Non altrettanto – fra l’altro ancora troppi – gli oppositori.