In breve, la storia dell’Impeachment di Donald Trump

È il 24 settembre 2019 e la Speaker democratica della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi annuncia di voler creare una Commissione camerale per esaminare il comportamento del Presidente in merito ai rapporti avuti con il Capo dello Stato ucraino al fine di ottenerne, condizionando gli aiuti concordati, la collaborazione per investigare i colà trascorsi comportamenti, a favore del figlio, dell’un tempo Vice Presidente di Barack Obama (ed attuale possibile sfidante democratico) Joe Biden.
Trump, nella circostanza, rifiuta di collaborare a quella che chiama “la caccia alle streghe peggiore della storia americana”.
La Camera retta dai democratici, seguendo un copione già scritto che sarà dipoi in risposta seguito dai repubblicani nell’altro ramo del Congresso, sentite varie testimonianze, vota Impeachment del Presidente il 28 dicembre successivo.
L’accusa di abuso di ufficio passa per duecentotrenta consensi a centonovantasette.
Quella di intralcio alla giustizia per duecentoventinove a centonovantotto.
La deputata Tulsi Gabbard – candidata alla nomination tra i dem – si astiene.
Il 16 gennaio 2020 prendono il via in Senato, dirette secondo il disposto costituzionale dal Presidente della Corte Suprema John Roberts, le sessioni dedicate all’esame e al giudizio (spettante appunto alla Camera Alta) della richiesta di destituzione.
Cinquantatre i Laticlavi appartenenti al Grand Old Party.
Quarantacinque quelli dell’Asinello.
Due – peraltro accasati tra i democratici – gli indipendenti.
Sette i Rappresentanti democratici incaricati di sostenere le due accuse nell’aula senatoriale.
Del collegio di difesa di Donald Trump fanno parte Pat Cipollone, il famoso avvocato Alan Dershowitz e l’un tempo accusatore di Bill Clinton Kennett Starr.
Le richieste avanzate dai democratici di potere ascoltare altri testimoni oltre quelli sentiti alla Camera vengono respinte con cinquantuno suffragi contro quarantanove, essendosi due repubblicani (Susan Collins e Mitt Romney) aggiunti ai democratici.
Il voto conclusivo sulle due accuse ha luogo il 5 febbraio 2020.
Nella circostanza, il fronte repubblicano – quanto a quella di abuso potere (non a quella di intralcio alla giustizia) – è rotto dalla defezione di Mitt Romney che si schiera a favore della destituzione.
È la prima volta in assoluto che un Senatore nel processo di Impeachment (peraltro condotto solo in altre due occasioni) vota contro un Capo dello Stato appartenente al suo stesso partito.
A parte il fatto che per la destituzione del Presidente è necessaria la maggioranza qualificata dei due terzi dei presenti in aula e votanti, le due votazioni si concludono con l’assoluzione del tycoon per cinquantadue a quarantotto quanto all’abuso di potere e di cinquantatre a quarantasette con riferimento all’intralcio alla giustizia.
Alla fine di un procedimento esclusivamente governato dalla politica partitica (i democratici in maggioranza alla Camera accusano e i repubblicani in maggioranza al Senato assolvono) dobbiamo sperare che in futuro per arrivare a tanto soccorrano argomentazioni più valide.
Che non si arrivi a svilire l’uso di un istituto che va maneggiato con molta maggiore cura.