La ‘decolonizzazione’ USA dopo la Seconda Guerra Mondiale

“Il fatto che abbiamo totalmente sconfitto i nostri nemici e poi li abbiamo ricondotti alla comunità delle Nazioni.
Mi piace pensare che soltanto l’America l’avrebbe fatto”.
Queste le parole dette da Harry Truman ad un relativamente (ha oggi novantasette anni compiuti!) giovane Harry Kissinger il quale, a Kansas City nel 1961 per una conferenza, era andato a trovarlo e gli aveva chiesto quale operato lo avesse reso più orgoglioso durante il suo non breve mandato.
Non v’è chi non colga nelle parole dell’inaspettatamente (visti i discutibili e non felicemente preconizzatori trascorsi personali e politici) grande uomo di Stato inatteso successore di Franklin Delano Roosevelt echi di già antichi radicamenti culturali e ideologici degli Stati Uniti quali l’Eccezionalismo, il Destino Manifesto, una Frontiera infine non più solo concretamente bensì idealmente intesa…
Giusta la rivendicazione dell’anziano ma sempre combattivo (quale ancora si era palesato nella Convention democratica della precedente estate) Missouriano?
Sì e no.
Erano state, difatti, le vantate azioni pacificanti fortemente favorite e condizionate (se non addirittura dettate) da rivoluzionarie considerazioni – conseguenti agli accadimenti del drammatico conflitto appena giunto al termine – che illustravano un futuro (ovviamente, diremmo noi col senno di poi che caratterizza quanti beotamente non contestualizzano) assolutamente diverso da quello che era stato in precedenza immaginato, ad affrontare il quale, le intelligenze si erano lambiccate.
Questo perché l’enorme progresso conseguito in tutti i campi – in primo luogo scientifici e tecnici – dal Paese a quel punto internazionalmente dominante aveva portato a una situazione tale per la quale la ‘colonizzazione’ del mondo (tra il 1898, dopo l’acquisizione delle Filippine, di Guam, di Portorico, eccetera, e il 1945 – per quanto nei limiti celata, negata financo a se stessi – fiorente) non solo poteva, ‘doveva’ avere luogo altrimenti.
In poche parole, i mille ritrovati tecnici e tecnologici, i collegamenti non più per i tempi necessari esasperanti, il fatto che praticamente infiniti erano i ‘punti’ (isole, in specie, disabitate e comunque non contese) occupati opportunamente attrezzati che consentivano di intervenire (bastando spessissimo la minaccia), permisero un ‘ritiro’ formale ma non sostanziale nonché la sottolineata reintroduzione dei vinti “nella comunità delle Nazioni”.
Gli Stati Uniti non occupavano più terre coloniali (fu proprio Truman ad agire per fare delle Filippine uno Stato finalmente autonomo nel 1946) in buona sostanza perché non era necessario farlo e molto più, non solo economicamente ma agli occhi del mondo, conveniente esimersi.
Tutto ciò detto e argomentato, intatta rimane la forte considerazione del Missouriano che da insignificante ometto uso a ricevere ordini si era dimostrato (tale restando anche quando confrontato ai successori) uno dei massimi e intelligenti decisionisti mai arrivati sullo scranno presidenziale, infiniti essendo i suoi interventi a livello mondiale (il Piano Marshall? la Dottrina che da lui prende nome?…) e interno (i provvedimenti a favore delle minoranze presi essendo democratico la qual cosa a quei tempi voleva dire conservatore e segregazionista?).
Infinite volte chapeau, Harry!