Paul Ryan dice no

“Non accetterò la nomination e non eserciterò la funzione se eletto!”

Così, radicalmente, in altri e lontani tempi (1884), il generale William Tecumseh Sherman allorquando i repubblicani gli offrirono la candidatura.

Il definitivo rifiuto di colui che gli storici hanno definito ‘il primo generale moderno’ torna alla mente oggi dopo che lo speaker della camera dei rappresentanti, anch’egli GOP, Paul Ryan, in una conferenza stampa, ha asserito di non essere interessato ad ottenere, in una eventuale e ora possibile brokered convention in quel di Cleveland, l’investitura del suo partito.

La chiamata fuori di Ryan – nel 2012 candidato vice di Mitt Romney e con il mormone sconfitto – avrebbe dovuto fornire un chiarimento visto che il suo era il nome più gettonato nella predetta ipotesi, nel caso quindi in cui quel benedett’uomo di Donald Trump non ce la facesse a conquistare la maggioranza assoluta dei delegati prima del redde rationem.

Ebbene, pare non sia così.

Trump ha setto che non gli crede.

E, per il vero, sembra non gli creda nemmeno larga parte degli osservatori.

E’ quella in corso una magnifica campagna per White House come non se ne vedevano da tempo.

Cani sciolti, maverick, establishment in gravi difficoltà, giovani entusiasti, gente che va a votare contro, neri, ispanici, una donna che corre per la prima volta con reali possibilità, scandali incombenti, candidati decisamente vecchi da una parte, decisamente fuori dagli schemi dall’altra, eliminazione mano mano dei contendenti maggiormente attrezzati, e chi più ne ha più ne metta.

Guardando a tutto questo, godendo dello spettacolo, possiamo ancora sperare che la speciale Provvidenza divina che secondo Bismarck protegge i matti, gli ubriachi, i bambini e gli Stati Uniti d’America, faccia in modo che comunque e in ogni caso a Washington si insedi ‘the best man’?