Perché è difficile se non impossibile che un terzo candidato davvero si affermi

Nelle ultime venticinque tornate elettorali in sole quattro occasioni un candidato terzo, non democratico né repubblicano quindi, è riuscito a superare il dieci per cento dei consensi popolari a livello nazionale.
I due migliori esiti?
Robert La Follette nel 1924 e Ross Perot nel 1992, comunque entrambi percentualmente sotto il venti.
In numerose circostanze, distanti in verità le votazioni, altri, poi sostanzialmente spariti o quasi, sembravano avere reali possibilità di ottenere un ottimo risultato.
Il migliore tra questi?
John Anderson nel 1980: dato al venti per cento ha visto mano mano sgretolarsi il proprio fronte per arrivare ad un soltanto onorevole sei e sei.
Tale fenomeno (l’avvicinarsi della consultazione che diminuisce il consenso dei candidati minori) è stato studiato.
Fatto sta che l’elettore teoricamente disposto ad appoggiare appunto il terzo, memore dei precedenti (si pensi per dire al 2000, quando con buona probabilità il voto per il verde Ralph Nader in Florida permise a George W. Bush di vincere colà e conseguentemente nel Paese), finisce per scegliere quello che tra il democratico e il repubblicano considera il meno peggio rientrando pertanto nei ranghi.

Nella situazione attuale, poi, le difficoltà sono da ritenere pressoché insormontabili dato che solo i due partiti maggiori hanno ottenuto l’accesso al voto in tutti i cinquanta Stati e nel District of Columbia potendo pertanto teoricamente aspirare a tutti i cinquecento trentotto delegati che compongono il Collegio Elettorale che effettivamente nomina il Presidente.
I libertariani e i verdi – le due formazioni comunque più strutturate a livello nazionale – sono ben lontani da tale traguardo e i loro candidati partono potendo contare su un numero decisamente inferiore di possibili sostenitori.
Per non parlare dei tre o quattro indipendenti (fra i quali Robert Kennedy jr) messi molto peggio.

17 marzo 2024