Presidenziali del 1992

Alle urne il 3 novembre.
Vota il cinquantacinque e due per cento degli aventi diritto con un aumento pari al cinque, dati i tempi, decisamente non poco.
Con ogni probabilità, a convogliare, sia pure relativamente, un numero maggiore di elettori è che per la prima volta da due decenni abbondanti (l’ultimo precedente serio data 1968 e riguarda George Wallace) un terzo candidato ha voce in capitolo.
Per il vero, l’indipendente miliardario texano Ross Perot, nella circostanza, conquista addirittura il diciannove per cento del voto popolare ma non vince neppure uno Stato, ragione per la quale incide solo togliendo a George Herbert Bush l’acqua nella quale nuota abitualmente o almeno così la maggior parte degli osservatori ritiene.
Da segnalare che, essendo il gradimento nei sondaggi del texano particolarmente rilevante viene ammesso ai dibattiti televisivi nazionali nella fase conclusiva della tornata.

Nel campo repubblicano, per quanto il Presidente uscente sia decisamente riproponibile e con buone possibilità (si è conclusa positivamente la Guerra del Golfo cosa che farà erratamente ritenere Bush imbattibile da parte dei big democratici che lasceranno strada a un outsider, come vedremo), non mancano le critiche che si incarnano nel giornalista e opinionista tv nonché ex consigliere presidenziale Patrick Buchanan.
Nominato comunque a Houston – sempre seguito dal criticatissimo Vice Dan Quayle – George Herbert Bush sarà protagonista di una campagna in tono minore che Maldwyn Jones afferma essere stata poco a contatto con la gente comune e distante dai problemi di tutti i giorni degli elettori.

Il Partito Democratico invece, fuori gioco come detto Gary Hart e incredibilmente assente il Governatore del New York Mario Cuomo che tutti i sondaggi davano per favorito, schiera nelle Primarie un notevole numero di candidati.
Tra gli altri, il Governatore della California Jerry Brown, l’ex Senatore del Massachusetts Paul Tsongas, il Senatore del Nebraska Bob Kerrey, il Senatore dell’Iowa Tom Harkin e, estremo outsider in quanto proveniente da uno Stato periferico e trascurato, il Governatore dell’Arkansas Bill Clinton.
Abilissimo e in grado di convincere un eschimese a comprare un frigorifero, mettendo in fila una serie di successi nelle Primarie, sarà quest’ultimo ad ottenere a Houston la Nomination.

Come altra volta detto, molto difficile la defenestrazione di un Presidente in carica e in cerca di rinnovo se quegli è un democratico.
Più facile, quando si tratti di un repubblicano.
Approfittando della citata malavoglia di Bush, della crisi economica e dei provvedimenti presi dalla sua amministrazione per contrastarla (il negato aumento delle tasse invece attuato), Clinton riuscirà a vincere nettamente in questo imitando i predecessori esponenti dell’Asinello Grover Cleveland (vittorioso su Benjamin Harrison), Woodrow Wilson (su William Taft), Franklin Delano Roosevelt (su Herbert Hoover) e Jimmy Carter (su Gerald Ford).

I risultati?
Clinton, trentadue Stati più il Distretto di Columbia e trecentosettanta Elettori.
Bush, diciotto Stati e centosessantotto voti al Collegio.

Per inciso, Bush – l’abbiamo già detto – era il secondo Vice capace di approdare a White House subito dopo avere esercitato il ruolo.
Prima di lui, addirittura nel 1836, Martin Van Buren.
Ebbene, proprio come Van Buren, non gli riuscì di essere confermato.

11 aprile 2024