Quando il Sud perse il diritto di veto sulla scelta dei candidati a White House

Per acclamazione, ecco come Franklin Delano Roosevelt e il suo running mate John Garner – rispettivamente Presidente e Vice Presidente uscenti – ottennero la Nomination nella Convention democratica del 1936.
I lavori si svolsero a Philadelphia dal 23 al 27 giugno di quell’anno e, come ampiamente noto, il ticket democratico non ebbe a novembre difficoltà alcuna ad imporsi (oltre undici milioni di voti popolari in più del povero candidato repubblicano Alfred Landon – al cui fianco era schierato Frank Knox -, quanto agli Stati, perdendo solo nel Maine e nel Vermont e conquistando la bellezza di cinquecentoventitre delegati al collegio elettorale contro otto).

Ora, perché fra tutte occuparsi in particolare di questa, parrebbe, normalissima Convention (gli uscenti vengono riproposti e rivincono, nulla di più normale, appunto)?
In quanto, in quella occasione, le regole che portavano alla scelta dei candidati mutarono: non occorreva più avere a proprio favore i due terzi dei delegati bastando, allora e da allora, la maggioranza assoluta.

Di certo, alla decisione avevano portato anche i drammatici accadimenti relativi alle Convention del partito più recenti: votazioni infinite, accordi segreti di sovente disattesi a tradimento, scelte spesso di compromesso sicuramente perdenti e confermatisi tali nelle urne (F.D.R aveva sì vinto nel 1932, ma nel pieno della Depressione conseguente al crollo del 1929, in un momento, pertanto, favorevolissimo ai democratici in precedenza fuori da White House dai tempi del secondo mandato di Woodrow Wilson).

Altrettanto certamente, però, la nuova regola serviva al partito dell’Asino per sottrarsi, finalmente, al capestro derivante, quando la maggioranza necessaria era dei due terzi, dal ‘peso’ dei delegati del Sud il cui conservatorismo – diciamo così – specie in materia di diritti civili e delle minoranze, esercitato condizionando le decisioni, era asfissiante.

A ben guardare, giusto che una tale rivoluzione si verificasse praticamente al termine del primo mandato del secondo Roosevelt, mandato che se aveva deluso sul piano della lotta alla crisi economica (sarà in verità solo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale che metterà in moto l’industria bellica a sistemare davvero le cose, e questo anche se ai sostenitori comunque e sempre di F. D. tale affermazione non piace), aveva invece, direi culturalmente, profondamente inciso – tra alti e bassi e spesso soffrendo la contrapposizione di una Corte Suprema a quei tempi presieduta da Charles Evans Hughes – avendo messo sul tappeto questioni lungamente trascurate dai repubblicani quali, per usare alquanto brutalmente, come avviene quando si semplifica, una sola espressione, quelle relative alla giustizia sociale.

Per inciso, fu altresì quella la prima Convention democratica che vide la presenza di delegati di colore.

Se poi guardiamo ai successivi accadimenti storici, è possibile sostenere che è a partire da Philadelphia 1936 che inizia quel lungo periodo, non solo elettorale, in cui il partito dell’Asino, riposizionandosi man mano – si pensi a Lyndon Johnson, alla sua ‘Great society’ e all’ancora oggi determinante sconvolgimento geopolitico del quale è motore e fruitore nelle votazioni del 1964, allorquando ‘conquista’ il Nord fino ad allora, dalla Guerra di Secessione in poi, sempre repubblicano – governa la Federazione e la società, periodo che, per quanto interrotto soprattutto per gli sconvolgimenti conseguenti al conflitto coreano e alla vituperata Guerra del Vietnam, dai mandati dapprima di Dwight Eisenhower, dipoi di Richard Nixon e del suo sostituto Gerald Ford, si può ritenere termini nel 1980 all’apparire di Ronald Reagan, non per niente, da infiniti punti di vista, un appartenente al Great Old Party del tutto diverso, adatto ai tempi, direi.

24 febbraio 2024