McMullin può vincere nello Utah!!!

Sapete già di Evan McMullin.

Ne abbiamo parlato.

E’ un candidato indipendente che è riuscito ad iscriversi ufficialmente in una dozzina di Stati e che può essere votato scrivendo il suo nome (sistema ‘write in’) anche in un’altra scarsa ventina.

Quanto al suo gradimento, finora, zero assoluto.

Ma ecco che improvvisamente un sondaggio lo porta in prima linea, all’attenzione dei media.

Nello Utah, lo Stato dei mormoni, i dati più recenti fanno addirittura pensare che possa prevalere e quindi catturare i relativi grandi elettori.

La situazione sarebbe la seguente: Clinton e Trump alla pari al ventisei per cento, McMullin al ventidue e Gary Johnson al quattrordici.

E l’indipendente, mentre il repubblicano e la democratica perdono consensi e il libertariano è fermo, è dato in crescita.

Visto che in New Mexico c’è una lontana possibilità che prevalga Johnson, vincessero entrambi si tornerebbe ad avere esiti elettorali ottocenteschi (1824 e 1860 i due precedenti) con addirittura quattro candidati capaci di ottenere grandi elettori.

Vedremo.

Rasmussen: Trump è in vantaggio!

Allora, ti sei appena convinto che i giochi siano fatti.

Che Hillary abbia la Casa Bianca in tasca.

Che i continui, incessanti davvero, attacchi mediatici abbiano deciso la contesa.

Che Donald Trump sia inadatto quanto mai nessun altro alla presidenza (per il vero, pensi altrettanto della signora).

Tutto questo e un sondaggio compiuto tra il 10 e il 12 ottobre da Rasmussen Reports cambia le carte in tavola riportando un vantaggio (???!!!) del tycoon di due punti percentuali sulla rivale.

E’ pur vero che, una differente rilevazione conclude per l’ex first lady e ampiamente (sette gradini avanti per FOX News) ma, certamente, il clamoroso esito di Rasmussen allarma il campo democratico e ringalluzzisce quello repubblicano o almeno ‘trumpista’, se così si può dire.

Aspettiamo comunque i prossimi esiti forniti da altre fonti ma anche dopo sarà meglio non arrivare a conclusione veruna.

Trump: “Hillary senza la stampa conta zero!”

Un comizio in Florida.

(Credo che, girando come trottole per l’intero Paese, i due non sappiano mai bene dove si trovino e abbiano necessità che qualcuno, prima dei comizi o delle interviste, li informi).

E’ dunque durante un comizio in Florida che Donald Trump – il quale, fra l’altro, ha minacciato di querelare il New York Times se non ritratta alcune notizie riportate a modo di vedere del tycoon false – ha detto chiaramente che “i Clinton sono dei criminali” (d’altra parte, non aveva forse aggredito l’ex segretario di Stato nel corso del secondo dibattito dicendole che dovrebbe stare in galera?)

Aggiungendo che “senza la stampa Hillary conta zero!”

Forse non proprio zero, ma davvero poco ove si rifletta sul fatto che, pur appoggiata in ogni modo possibile dai media, la signora è in vantaggio alla fin fine di pochi punti quando ci si aspetterebbe, considerate le bocche da fuoco – che hanno sparato a raffica – schierate a suo sostegno che prevalesse di almeno venti punti.

Johnson può approfittare di un crollo di Trump?

Gary Johnson spera che un possibile crollo di Donald Trump nelle urne novembrine lo favorisca.

Ma come?

Del tutto relativamente.

Potrebbe consentirgli di vincere in New Mexico, laddove il libertariano parte, stando ai sondaggi, da un buon ventiquattro per cento.

Potrebbe consentirgli un miglior risultato nazionale in termini percentuali.

Non potrebbe mai garantirgli altro dappoiché il possibile crollo di Trump avrebbe come effetto una vittoria ‘a valanga’ di Clinton.

Trump boicottato? La denuncia di Bill O’Reilly

Ok, Fox News, lo si sa bene, è quantomeno vicina al partito repubblicano.

Questo vuol dire che debba necessariamente e sempre essere schierata a fianco e a sostegno di Donald Trump?

No, come si è visto, soprattutto per via del fatto che il tycoon nuovaiorchese, dall’emittente come da una infinità di altri GOP, non è ritenuto un candidato ‘veramente’ repubblicano.

Deve, quindi, prestarsi una qualche attenzione alla denuncia che uno degli anchorman di maggior peso della Fox ha fatto nelle ultime ore.

Bill O’Reilly – uno con voce in capitolo e prestigio da difendere, non un frillo qualsiasi – ha difatti dichiarato di essere sicuro che almeno tre grandi corporation media hanno parlato (cose del genere non si mettono per iscritto) ai propri giornalisti ordinando loro di essere feroci con Trump pena gravi conseguenze se non addirittura il licenziamento.

Vero?

Non vero?

Verosimile, sì.

Al Gore: “Trump ci porterà alla catastrofe ambientale!”

Una domanda che abbiamo già fatto e che, oggi, alla luce delle parole pronunciate dall’ex vice di Bill Clinton, Al Gore, dobbiamo riproporre: “Esiste un qualsiasi reato, una minima contravvenzione, del codice penale che Donald Trump non abbia commesso?”

In aggiunta: “C’è qualche iattura, qualche catastrofe, qualche terremoto che una sua vittoria non causerebbe necessariamente?”

Sì, perché l’unico candidato a White House che nella storia USA abbia fatto ricorso alla Corte Suprema per contestare la vittoria del rivale (cosa che non fece, per esempio, Richard Nixon quando Kennedy gli sottrasse la presidenza nel 1960) ha dichiarato che l’affermazione di Trump “porterebbe alla catastrofe ambientale”.

Eppure, il buon Gore dovrebbe sapere per aver vissuto otto anni al fianco di Bill – che, per quanto disinvolto nella conduzione della politica estera, si trovò in difficoltà per il magico sistema USA dei bilanciamenti – che in realtà un Trump in sella non potrebbe assolutamente fare quello che vuole non curandosi di congresso e Corte Suprema.

Come disse Gerald Ford e qui ripeto: “l’unica cosa che il presidente americano può decidere da solo è quando andare al gabinetto!”

Priebus corre ai ripari

Paul Ryan si sfila?

E Reince Priebus corre ai ripari!

I fatti.

Come scritto, lo speaker della camera (un repubblicano, visto che colà gli uomini del partito che fu di Reagan hanno la maggioranza, come d’altra parte al senato) dichiara a piena voce che Trump va scaricato in quanto elettoralmente nocivo appunto per il GOP.

Non fa in tempo a tacersi, che il presidente del Comitato Nazionale Repubblicano lo smentisce affermando con impeto che il sostegno al tycoon è forte come prima e incrollabile.

E’ un momento davvero difficile per il GOP ma è meglio che si mettano d’accordo. 

James Sherman? Nicholas Butler? Thomas Eagleton?

Ok, si parla di possibili dimissioni di Donald Trump.

Se le presentasse, sarebbe la prima volta nella quale un candidato alla presidenza in possesso della nomination si dimetterebbe.

Guardando alla lunga storia delle presidenziali, due invece i casi di, diciamo così, perdita  di un candidato alla vice presidenza.

Il più vicino riguarda il partito democratico e si colloca nel 1972.

Con George McGovern corre nell’occasione Thomas Eagleton.

Si scopre che in passato lo stesso ha dovuto ricorrere a cure di carattere psicologico e a ricoveri per curare la depressione.

Dimesso, viene sostituito in corsa da Sargent Shriver.

Il ticket McGovern/Shriver perderà dipoi rovinosamente.

Il più lontano concerne il vice presidente di William Taft, James Sherman.

In carica con Taft dal 4 marzo 1909, si candida con lui nelle elezioni del 1912 per la ricercata conferma.

Purtroppo, muore il 30 ottobre di quell’anno, a meno di una settimana dal voto.

Non essendo possibile sostituirlo nel ticket ufficiale, il comitato repubblicano decreta che i voti da lui raccolti nell’election day vadano a Nicholas Butler il quale, pertanto, detiene il record di candidato alla vice presidenza mai inserito nelle schede elettorali.

Sessant’anni e più di elezioni americane

Certo, ricordo la corsa per la Casa Bianca del 1952: il generale Dwight ‘Ike’ Eisenhower, repubblicano, che tutti definivano “il vincitore della seconda guerra mondiale”, se la vedeva con un intellettuale, Adlai Stevenson e all’epoca, poco più che bambino, credevo ancora negli intellettuali in politica.

Prevalse facilmente ‘Ike’, il GOP, e ne fui deluso.

Fu allora, comunque, che del gioco appresi i primi rudimenti e, per cominciare, che GOP, usato per indicare sia il partito che gli aderenti allo stesso, era l’acronimo di Grand Old Party.

L’asinello, poi, simbolo dei democratici, era simpatico ma, e la bilancia si equilibrava, l’elefantino repubblicano non lo era di meno.

Quattro anni dopo – un solo governo in carica per un intero quadriennio mentre da noi i dicasteri cadevano come le foglie d’autunno! – la replica: gli stessi due contendenti e il medesimo risultato.

Unica differenza, si diceva, il tentativo non riuscito del democratico di apparire meno elitario, più alla mano.

Fu nel 1960, invero, che mi appassionai.

John Fitzgerald Kennedy veniva rappresentato come un dio e un divo.

Tutto congiurava a suo favore compresa, in specie, la promessa fatta di un futuro migliore, straordinario: la ‘Nuova frontiera’, perbacco!

(Si trattava della ripresa del concetto di ‘Frontiera’ come teorizzato da Frederick Jackson Turner verso fine Ottocento, ma veniva presentato come un ideale kennediano).

Studiata a tavolino da un trust di cervelli di livello capaci di applicare per la prima volta al meglio il marketing alle elezioni, la campagna fu vincente, anche se, incredibilmente, di un pelo e, scoprimmo dopo, con l’aiutino di qualche mariuolo.

Tanto era stata coinvolgente (il mondo intero aveva creduto nelle promesse dipoi non mantenute) l’operazione portata a termine quanto fu deludente la successiva presidenza del nostro dimostratosi infine un parolaio e da alcuni ritenuto altresì pericoloso!

Fra l’altro, spacciato per pacifista, aveva aumentato di molto le spese militari e dato il via a quella che sarà la guerra del Vietnam, una catastrofe che non gli viene attribuita dai frilli come storicamente sarebbe corretto.

Gioca e giocherà sempre a suo favore, rendendolo leggendario, l’assassinio di Dallas nel novembre del 1963, il primo attentato presidenziale immortalato dalla cinepresa e pertanto visto e rivisto da miliardi di persone.

Tradito da Kennedy, ero pronto a rifugiarmi tra le braccia di un repubblicano e pertanto nel 1964 tifai per Barry Goldwater (con lui, nientemeno che John Wayne, il ‘duca’, il massimo), un GOP al quale ancora oggi non pochi si rifanno ideologicamente.

Mai scelta fu meno azzeccata.

Lyndon Johnson, che non mi piaceva per una sua rozzezza naturale ma che, succeduto a Kennedy, si era subito dimostrato straordinario in politica interna, demolì il contendente – e ci può stare – stravolgendo, ed è unico, per sempre la geopolitica USA.

I democratici, da allora – anche se qualche repubblicano sarà nel seguito capace di invertire la tendenza – conquistarono il Nord del Paese, da sempre repubblicano.

I GOP si trovarono confinati a Sud, laddove in precedenza non contavano nulla.

Una rivoluzione vera accompagnata da serissime riforme johnsoniane in campo sociale, assistenziale, razziale.

Il texano è del tutto ingiustamente passato alla storia per il disastro vietnamita che lo costrinse a non ricandidarsi.

Da quanti – legioni – studiano, per così dire, storia sui rotocalchi è ritenuto un usurpatore, un indegno successore del mitico Kennedy.

Gli storici scrivono giustamente che Johnson fu un presidente “eccezionale”, a mio modo di vedere il più grande per il coraggio, le idee, la capacità, la lungimiranza, la sofferenza.

Ed eccomi(ci) al 1968.

Tumulti, sommosse, contro la guerra e per le questioni concernenti le minoranze.

Un risorto Richard Nixon – sconfitto da Kennedy aveva dipoi perso anche in California e sembrava finito – supera il democratico Hubert Humphrey, il vice di Johnson.

Nixon, con l’aiuto di Henry Kissinger, sarà straordinario in politica estera ma finirà male nel secondo mandato per via dello scandalo Watergate.

(E mi divertì allora scoprire che l’edificio in cotal modo denominato era stato realizzato su progetto del grande architetto italiano Luigi Moretti).

Quel 1968 è e resta particolare per la candidatura di un forte indipendente, un terzo incomodo in grado di vincere in cinque Stati, cosa mai più successa.

Si trattava di George Wallace, che riuscì a coagulare sul suo nome i razzisti e i sostenitori del segregazionismo.

Segue la tornata 1972.

Una passeggiata, la conferma di un Nixon che ammiro.

Scoprirò dopo non solo il Watergate ma anche le manovre nixoniane messe in atto per eliminare il pericoloso rivale Edmund Muskie, cancellato dalla corsa democratico con mezzi inqualificabili a favore di un più facilmente battibile George McGovern.

Saltato nell’agosto 1974 e dopo una lunga agonia Nixon – che, ripeto, in politica estera aveva davvero brillato – feci in tempo ad innamorarmi di Gerald Ford, un uomo serio e capace del quale pochi compresero l’opera meritoria.

Il predetto Kissinger ne parlerà benissimo anni e anni dopo, confortandomi.

Jimmy Carter?

Brava, bravissima persona, piena di ottime intenzioni e, come spesso accade a tipi consimili un mezzo fallito.

Avevo tifato contro e per Ford nel 1976 e penso ancora oggi che l’America sarebbe andata meglio con l’uomo di Omaha in sella per altri quattro anni.

Tant’è.

E arriviamo a Ronald Reagan, l’attore di serie b, secondo i mille e mille denigratori, ignoranti e prevenuti.

Sapevo perfettamente che si trattava di tutt’altro, di un uomo preparato, di un politico di lunga vaglia, di un governatore della California di vero peso.

Sapevo che avrebbe defenestrato il povero Carter e immaginavo, avevo direi la certezza, che avrebbe ‘regnato’ alla grande.

Ronnie, con Margaret Thatcher, rivoltò il mondo come un calzino.

L’ho seguito con partecipazione e affetto e, nel 1984, quasi, provai pena per il suo sfidante Walter Mondale tanto evidentemente destinato a una débacle.

George Herbert Bush?

Dai tempi di John Quincy Adams, dai tempi dei tempi, nessun candidato altrettanto adeguatamente preparato.

Aveva ricoperto e benissimo ogni importante incarico: ambasciatore, capo della CIA, vice presidente, per dirne alcuni.

Ebbene, battuto nel 1988 Michael Dukakis, una meteora democratica, G.H, andò come spegnendosi e arrivò al confronto con quel simpatico demagogo di Bill Clinton conciato male.

Lo si è capito e lo dichiaro: da tempo, dal dopo Lyndon Johnson, visti i personaggi e i programmi, visti i risultati, propendevo per i repubblicani.

Così sperai che G.H. avesse un soprassalto in quel 1992.

Forse, non si fosse proposto come indipendente il texano carico di quattrini Ross Perot – che mi stava antipatico – il quale gli portò via parte dell’elettorato, ce l’avrebbe fatta.

Ma, con i forse…

Ed eccoci a Clinton.

La storia, quando le acque ancora agitatissime per via di Hillary Rodham sua moglie si calmeranno, dirà che non è certamente stato un grande presidente.

Uno uomo brillante, l’ho detto.

Uno uomo fortunato al quale è stato perdonato tutto.

E non parlo solo delle donnine.

Tutto, comprese azioni belliche che a un repubblicano sarebbero costate ostracismi e proteste di massa.

Sconfitto Bob Dole – uno sfidante senza verve e possibilità reali – nel 1996, Bill portò a termine senza infamia (?) e senza lode un secondo mandato.

Il 2000?

Per la miseria, che campagna, che lotta!

George Walker Bush contro Al Gore.

Una battaglia davvero strenua nella quale, come non accadeva dal 1888, il candidato più votato (Gore) a livello nazionale ha perso.

Una guerra a colpi di ricorsi determinata nel risultato dalla Corte Suprema.

Un confronto che fu deciso dalla Florida come era accaduto nelle elezioni del 1876.

Tifavo Bush, naturalmente.

Ed ecco il patatrac.

G.W. era un, non eccessivamente strenuo, isolazionista.

Tutta la campagna 2000 lo dimostra come rammentano davvero pochi, gli ignoranti essendo un numero sterminato.

E non andrà certamente in giro per il mondo a guerreggiare G.W. nei primi mesi di governo.

Tutto cambierà, radicalmente e definitivamente, dopo l’11 settembre 2001: interventi in Afghanistan, guerra all’Iraq, caccia a Bin Laden e ai membri della sua organizzazione, la lista degli ‘Stati canaglia’.

Un altro mondo.

Parlano tutti male di G.W. ed è facile, in seguito, conoscendo fatti e situazioni al momento delle decisioni ignoti, giudicare.

Credo che fra un paio di decenni, a bocce ferme, gli storici giudicheranno bene il secondo Bush così come criticheranno, lo ripeto, Bill Clinton,

Basta aspettare…

Non posso trascurare la tornata elettorale 2004, l’ultima nella quale il partito democratico abbia presentato un candidato ‘vero’, John Kerry.

Vero e perdente, d’accordo.

Ma un uomo politico serio e preparato, ideologicamente e idealmente.

Tenevo per G.W. ovviamente, ma Kerry era un avversario degno davvero.

2008?

Un disastro.

I repubblicani puntano con notevoli esitazioni su una vecchia bandiera, John McCain.

Una vecchia bandiera che non esalta o trascina nessuno.

I democratici, oramai definitivamente e senza speranza travolti dal ‘politically correct’ e immersi in una poltiglia ideologica che li ottenebra, scelgono in effetti non una candidato ma “un nero”.

Barack Obama, un novello senatore la cui unica nota caratteristica è il colore della pelle – che è il massimo perché costringe i razzisti che non vogliono dirsi e sentirsi tali a votarlo – che viene spacciato per ‘afroamericano’.

Non lo è affatto, essendo caratteristiche degli afroamericani la discendenza dagli schiavi, l’avere vissuto nell’emarginazione e nelle difficoltà, se del caso, l’aver dovuto e saputo – molti lo hanno fatto e benissimo – emergere contro infinite limitazioni.

Uomo disinvolto – il suo unico merito – Obama è un magnifico annunciatore, maestro nel dare per acquisite, raggiunte, mete invece lontane e probabilmente, di contro, irraggiungibili per un bel pezzo.

Parla, parla, annuncia..

I repubblicani, in chiara difficoltà per via – semplificando brutalmente, ma ognuno degli argomenti qui di volo accennati merita un saggio esteso e non poco – dell’arretramento decisivo degli ‘wasp’ (white, anglo-saxon, protestant) e dell’emergere delle altre etnie, incapaci di trovare nuove linee, perdono anche nel 2012, pur presentando un esponente di spessore, Mitt Romney.

Obama è stato il ‘candidato nero’.

Oggi, Hillary Clinton (che, senza che le femministe neppure fiatassero, ha cancellato il cognome Rodham), è il ‘candidato donna’.

Sempre più ‘politically correct’ questi democratici.

Politico fallito in ogni sua azione – da first lady, da senatore (l’unica ‘presidentessa’ che abbia avuto l’improntitudine di candidarsi al senato per di più mentre il marito governava il Paese), da segretario di Stato – coinvolta in scandalucci vari di natura finanziaria, la signora, freneticamente tesa al potere purchessia e a qualsiasi costo, corre verso la gloria.

Ha, anche, la fortuna di avere come rivale un funambolo della politica, un fattucchiere, un uomo volgare e chi più ne ha, giustamente ne metta.

Un repubblicano che tale non è mai stato davvero e non è.

Vincerà Hillary?

Ci mancherebbe altro!

Come ho già detto e scritto, la prossima volta, alla ricerca del ‘politicamente corretto assoluto’ (che verrà nell’occasione raggiunto) i democratici – i repubblicani, chissà? – presenteranno una donna di colore, handicappata, lesbica o trans gender assolutamente incapace e inesperta.

Chi mai, avendo la candidata queste straordinarie ‘qualità’ potrà esimersi dal votarla?

Non se ne può più.

Ok, seguo ancora le vicissitudini presidenziali americane, ma con grande tristezza!

Il passaggio dei poteri tra Obama e Trump (lo scenario possibile)

Barack Obama – per usare un eufemismo – non vede Donald Trump di buon occhio, del tutto ricambiato dal tycoon.

Ebbene, dovesse vincere il GOP cosa accadrebbe il 20 gennaio prossimo in quel di Washington?

Guardando indietro, la successione più burrascosa fu quella tra John Quincy Adams e Andrew Jackson.

Vecchi rancori personali e politici, alla base.

Epiteti sanguinosi scambiati nel corso della campagna.

Considerazione vicina a zero da parte di Adams del rivale che, secondo lui, non sapeva neanche vergare il proprio nome tanto era ignorante.

Accuse di maneggi non certamente nobili da parte di Jackson.

Polemiche a non finire che portarono a un 4 marzo 1829 (allora, si entrava in carica il 4 di marzo e non il 20 gennaio) nel quale il passaggio delle consegne e dei poteri praticamente non ci fu.

Adams rifiutò di aspettare e accogliere il rivale come pure di accompagnarlo in carrozza – come dettava il cerimoniale – al luogo del giuramento.

Non che qualcosa di simile debba accadere il giorno dell’insediamento, ma, ripetiamo, vincesse Trump, sarebbe di certo un giorno da vivere con attenzione particolare.