Jeb Bush appoggia Ted Cruz

Endorsement a sorpresa da parte dell’ex governatore della Florida e candidato sconfitto nelle primarie in corso Jeb Bush.

Affermando che appare necessario, che occorre fermare Donald Trump, protagonista di una campagna elettorale a suo modo di vedere inqualificabile, appunto Jeb si è dichiarato a favore di Ted Cruz, l’unico altro concorrente alla nomination – ha rilevato – in grado di vincere finora in molti Stati (e ancora martedì 22 nello Utah) e conseguentemente, in prospettiva, di battere, sia pure con difficoltà, il magnate nuovayorchese.

E’ quella del più giovane dei Bush una iniziativa che può portare davvero alla sconfitta dell’ora trionfante Trump?

E’ quella di Jeb un’uscita che sarà seguita dall’establishment del GOP che vede il senatore del Texas, conservatore duro e puro, come il fumo negli occhi?

Ove Cruz riuscisse nella rimonta (difficile che accada, ripeto), avrebbe la possibilità di opporsi seriamente a Hillary Clinton nella general election fissata per l’8 novembre?

Questi e altri gli interrogativi ai quali è ora difficile rispondere. 

E’ la campagna 2016 per White House una delle più interessanti degli ultimi decenni.

Ottima cosa: meglio vivere momenti e stagioni interessanti che cedere al tran tran e alla noia, non credete?

USA: Quando si scende in basso

Ahia, ahia, ahi…

Non va bene.

Un Superpac che ce l’ha con Donald Trump lo ha attaccato – per il momento solo nello Utah alla vigilia del caucus dello Stato mormone – non sul piano politico, non sul piano delle idee o dei programmi ma su quello familiare.

Una foto che ritrae la attuale moglie del ricco nuovayorchese in una posa, come dire?, sexy.

Tuoni e fulmini da parte di Trump che ha pensato che l’attacco venisse dall’entourage di Cruz.

Minacce di ritorsione.

Il senatore del Texas che gliene dice quattro di rimando giurando di non avere niente a che fare con tutta la mala faccenda.

E mancano ancora un bel pacco di caucus e primarie, per non parlare della convention.

Niente di buono se si scende tanto in basso!

Obama a Cuba: come la vede Ted Cruz

Storica, a detta dei più, storica visita di Barack Obama a La Havana.

Stretta di mano con Raul Castro.

Esecuzione dell’inno USA.

Nel mentre, per il vero, non pochi problemi irrisolti e primo tra tutti quello relativo alla fine dell’embargo, visto che il congresso americano pare non sentirci bene da quest’orecchio.

Tra le molte voci critiche nei confronti del presidente – ovviamente in cerca di atti memorabili per la propria futura gloria (?) – quella, tonante, del senatore del Texas, candidato alla nomination GOP e conservatore duro e puro Ted Cruz.

Ecco quanto al riguardo ha dichiarato.

“L’Avana comunista è sempre stata un polo d’attrazione per i radical chic della sinistra, attirati come moscerini dalle fiamme di questo avamposto occidentale del comunismo totalitario.

Negli anni Sessanta i visitatori includevano Angela Davis, Stokely Carmichael.

‘Che’ Guevara in persona accolse Jean-Paul Sartre.

Ora a queste scene si aggiunge un presidente degli Stati Uniti. … Intanto i prigionieri politici che languono nelle carceri dell’isola sentiranno questo messaggio: nessuno vi sostiene.

Siete soli di fronte ai vostri torturatori.

Il mondo si è dimenticato di voi”.

Ticket Trump Cruz?

Certo, Donald Trump sa perfettamente che il partito non lo vuole.

Sa che i vecchi GOP sperano non raggiunga la maggioranza dei delegati prima della convention per eliminarlo lì.

Sa anche, di contro, di avere il coltello per il manico perché un bel numero di elettori hanno dimostrato finora di essere con lui e può sempre minacciare di candidarsi come terzo incomodo portando così i repubblicani nel baratro.

E’ ben contento dell’andamento di una campagna elettorale – la sua – che all’inizio nessuno aveva preso sul serio.

E comincia a guardarsi intorno.

Chi prendere nel caso come candidato alla vice presidenza?

Qualcuno gli ha chiesto se non sia opportuno allearsi col suo più forte avversario interno, con Ted Cruz.

“Non lo escludo”, ha risposto.

“E’ una pazzia anche solo pensarlo, ma nella vita le cose pazzesche sono millanta!”, ha concluso.

E d’altra parte, dovesse capitare, non sarebbe la prima volta che il vincitore delle primarie prende con se lo sconfitto.

E basti qui ricordare il caso 1980 in casa repubblicana.

Nomination a Ronald Reagan e incarico vice presidenziale al concorrente George Herbert Bush.

E i due signori in questione vinsero!

Chuck Norris alla Corte Suprema!

Domenica pomeriggio, due o tre ‘ciacole’ tramite whatsapp  con il ‘nuovayorchese’ Stefano Graziosi.

“Dopo Kasich, altri repubblicani si sono pronunciati a favore di Garland?”, chiedo.

Per quanti non lo sapessero, Obama ha da poco proposto il presidente della Corte d’Appello di Washington DC Merrick Garland come sostituto del defunto Antonin Scalia.

Un liberal al posto di un conservatore.

Tuoni e fulmini repubblicani che hanno la maggioranza al senato che deve ratificare tali nomine.

Ma non da parte di John Kasich che ha detto che se diventasse presidente potrebbe proporlo anche lui.

“No e se toccasse a Cruz credo che indicherebbe piuttosto Chuck Norris!”, la risposta.

Il protagonista di ‘Walker Texas Rangers’ è da sempre e anche oggi tra i GOP più duri e puri.

“Utah e Arizona alle porte.

Cosa dicono i sondaggi?”, domando.

“Cruz è dato sopra il cinquanta per cento nello Stato mormone e se davvero supera quella soglia scatta il ‘winner takes all’ che lì è condizionato e non assoluto”, replica.

In Florida, per fare un raffronto recente, il metodo ‘winner…’ tra i repubblicani ( i democratici vanno avanti col proporzionale e amen) era invece assoluto ragione per la quale Trump ha catturato tutti i delegati di quello Stato pur restando sotto il cinquanta per cento (i dati dicono quarantacinque e sette).

Ogni Stato stabilisce proprie regole in merito.

“E in Arizona?”, insisto.

“Trump e Cruz molto vicini”, conclude.

Passo alla casa democratica.

“E tra i dem?”, riprendo.

“Pare che Sanders sia in qualche vantaggio in Arizona ma è tutto fluido”, è la risposta.

A dire il vero, gli elettori dell’asinello martedì votano anche nell’Idaho, il misterioso (finora non se ne sa nulla) Idaho.

“Hillary Clinton, alla fine, vincerà tra i democratici”, concludo.

“E avrà davvero buone possibilità l’8 novembre.

Fatto è che né Trump né Cruz né Kasich hanno le caratteristiche ‘giuste’ per compattare il variegatissimo fronte repubblicano.

Trump è un cavallo imbizzarrito che pesca fuori e oltre il partito ma che non è voluto certamente dai centristi.

Cruz è la destra religiosa, del Tea Party (anche se con qualche distinguo), degli evangelici, la destra che quando riesce ad esprimere un proprio candidato novembrino perde sonoramente e che, al contempo, con molta difficoltà vota per un centrista, come dimostrano gli insuccessi di John McCain e di Mitt Romney.

Kasich è il classico candidato di ripiego, quello, per l’appunto, che i seguaci di Cruz non voterebbero per nessuna ragione.

Occorrerà fantasia nella composizione del ticket GOP.

E probabilmente – salvo colpi di scena clamorosi – non basterà”.

“Sono d’accordo”, chiude Graziosi.

Trump 2016 = Jackson 1824?

1824, Stati Uniti d’America.

Espressione ultima della grande aristocrazia agraria americana – cui sostanzialmente si deve la nascita della nazione, cui si devono il progetto e la creazione delle straordinarie basi istituzionali e giuridiche sulle quali si regge da sempre e ancora oggi il Paese –   John Quincy Adams, figlio del secondo presidente John Adams, magnificamente allevato per governare, già protagonista (per citare solo uno dei mille mandati eseguiti con successo) della Pace di Gand che aveva concluso la Guerra del 1812 con gli inglesi, a lungo diplomatico in Europa, grande segretario di Stato (e in tale veste, vero estensore di quella che da allora è nota come ‘dottrina Monroe’) del presidente uscente, appunto James Monroe, si candida, direi naturalmente, a White House.

Suoi competitor – e vedremo subito in qual modo scelti (ricordo che la ‘convention’ sarà introdotta dal partito antimassonico nel meccanismo elettorale solo dal 1831 e dipoi da tutti adottata) – Henry Clay, William Crawford e Andrew Jackson, tutti formalmente aderenti al suo stesso partito, il democratico-repubblicano.

Ho appena definito la candidatura di John Quincy Adams ‘naturale’ ma tale non fu affatto considerata all’epoca tanto che una parte dei congressisti democratico-repubblicani gli preferirono William Crawford della Georgia, del resto designato dal predetto Monroe come suo gradito successore.

Il secondo Adams viene quindi, in un clima di contrapposizione, investito successivamente in quel di Boston da quanti tra i congressisti non volevano il georgiano.

Ma non finisce qui perché il parlamento del Kentucky, in disaccordo, propone l’allora presidente della camera Henry Clay, mentre ancora il parlamento del Tennessee acclama e investe un personaggio fino a quel momento estraneo alla politica, il generale Andrew Jackson, eroe nazionale fin da quando (non ultima delle sue imprese militari), nel gennaio 1815, aveva sconfitto gli inglesi nella celeberrima e celebrata – per quanto inutile, visto che la pace era già stata firmata – Battaglia di New Orleans.

E’ pertanto quella del 1824 una campagna elettorale anomala considerato che le precedenti – con l’eccezione della tornata datata 1800 che aveva visto Thomas Jefferson e Aaron Burr arrivare alla pari come numero di delegati con conseguenze notevoli (decisione demandata alla camera, sconfitta di Burr al trentaseiesimo scrutinio, sconfitta determinata da Alexander Hamilton che sarà poi nel 1804 ucciso in duello dal rivale, unico caso di un vice presidente, tale era a quel momento Burr, coinvolto in fatti di sangue di tale gravità) – si erano svolte tra gentiluomini praticamente sapendo in partenza chi avrebbe vinto, sostanzialmente col beneplacito dei contendenti.

Lotta dura e risultati del tutto particolari.

Jackson conquista la maggioranza dei voti popolari e dei delegati: novantanove.

Un buon bottino ma non sufficiente visto che non arriva a superare il fatidico cinquanta per cento.

Dopo di lui, tutti con un sempre minor numero di voti e conseguente attribuzione dei grandi elettori, John Quincy, ottantaquattro delegati, Crawford quarantuno, Clay trentasette.

Il generale chiede da subito alla camera dei rappresentanti (per Costituzione, in un caso del genere, non avendo nessuno raggiunto la maggioranza assoluta, spetta proprio a quel consesso il pronunciamento decisivo, una scelta che deve essere fatta tra i primi tre candidati così come classificati) l’investitura.

Non è forse lui che ha ricevuto il più ampio consenso sia in termini di voto popolare che di conseguenti delegati?

Fuori gioco Crawford – preda di un colpo apoplettico non può certamente concorrere – escluso perché arrivato quarto Clay, la scelta è obbligatoriamente tra Jackson e John Quincy Adams.

E’ a questo punto che il presidente della camera decide di invitare i suoi a pronunciarsi per J.Q il quale, pertanto, viene eletto presidente.

Polemiche a non finire.

Contrapposizioni che si accentuano allorquando Adams sceglie proprio Clay come suo segretario di Stato.

Naturalmente, si grida allo scandalo, al ‘mercato delle vacche’.

A seguire, divisione interna al partito e nascita di due movimenti: quello dei repubblicani nazionali, sostenitori di Adams e Clay, e quello dei nazionali democratici, sostenitori di Jackson.

Da questi ultimi, nascerà più oltre il partito democratico ancora oggi – con quello repubblicano che vedrà la luce nel 1854 – imperante.

Quello che segue è un quadriennio presidenziale a dir poco tormentato durante il quale si verifica senza tema di smentita che il capo dello Stato USA non è affatto svincolato e libero di agire, in specie se deve confrontarsi con una maggioranza parlamentare non solo ostile ma decisa a combatterlo.

Moltissimi anni dopo, Gerald Ford dirà: “L’unica cosa che può decidere da solo un presidente è quando andare al gabinetto!”

Così, John Quincy Adams, che tutte le premesse indicavano come un presidente coi fiocchi, date le circostanze, fallì.

Sarà poi nel successivo 1828 che Jackson lo defenestrerà portando a termine quella che ho definito ‘la seconda rivoluzione americana’ (la prima essendo, ovviamente, quella per l’indipendenza) che coincise con il passaggio del potere dalla citata aristocrazia (di cui, quindi, ripeto, J.Q. fu l’ultimo rappresentante) e la borghesia.

Per inciso, al riguardo e a proposito del passaggio di consegne tra i due a dir poco burrascoso, invito a leggere i testi di Maldwyn Jones, di Allan Nevins e Henry Steele Commager e il mio ‘Americana’.

Ciò detto e narrato, quali le possibili connessioni con la campagna elettorale in corso in questo 2016?

Non è del tutto evidente che oggi, come nel 1824 nel caso di Jackson, corre per la presidenza un candidato (a dire il vero, in parte in quanto comunque senatore, due, se si guarda anche, in casa democratica, a Bernie Sanders, ma glissiamo) decisamente fuori dagli schemi e fino alla discesa in campo mai impegnato direttamente in politica?

Un pretendente al trono inviso all’establishment del suo partito che lo considera un corpo estraneo da respingere?

Un ‘fuorisistema’ che però attrae gli elettori appunto stanchi del ‘sistema’ dominante e pronti a cercare altrove dalla politica militante possibili soluzioni anche se, forse?, improbabili?

Un ‘maverick’ nel primo senso di ‘vitello non marchiato’ e pertanto libero, non ricompreso in una mandria, e nel secondo di persona non appartenente a una consorteria partitica ma indipendente?  

A queste domande, occorre rispondere di sì.

E nelle vesti che all’epoca furono di J.Q. non possiamo adesso mettere Mitt Romney che moltissimo si agita, da ‘vecchio’ repubblicano, per sbarrare la strada a Trump?

Perché, come chiunque ha subito capito, è di Donald Trump e della sua avventura che qui si parla e si deve parlare.

E v’è grandemente da temere, come nel 1824 per il partito democratico-repubblicano, per il futuro del Grand Old Party.

Specie se in una possibile e da molti repubblicani auspicata ‘brokered convention’, non avendo il nuovayorchese ottenuto nel corso delle primarie la maggioranza assoluta dei delegati ma essendo comunque in netto vantaggio, gli si negasse la nomination.

Una successiva sua candidatura da indipendente (se non addirittura da fondatore-leader di un altro movimento) porterebbe certamente il GOP sul ciglio del baratro e tutto questo in una temperie già, per infinite altre ragioni e contingenze, contraria al partito che fu di Lincoln, Teddy Roosevelt e Reagan.

Analogie.

Ipotesi.

Scenari. 

Rapid response director

Hillary Clinton non fa in tempo ad accusare il proprio rivale interno al partito dell’asinello Bernie Sanders di non avere appoggiato a suo tempo la proposta di riforma sanitaria da lei avanzata (ricordo che la ora cosiddetta ‘Hillarycare’ non ebbe successo alcuno quando la allora first lady la propose) che subito dal campo del senatore del Vermont si risponde con un fermo immagine di una stessa Clinton decisamente più giovane che perora la propria causa con a fianco un consenziente e partecipe Sanders.

Fatto è che in un’epoca sempre più tecnologicamente avanzata le strategie e le tecniche politiche si sono adeguate e i campi in conflitto (gli staff dei diversi contendenti) sono ogni giorno più agguerriti e preparati.

Tutte le immagini, tutte le dichiarazioni, tutte le prese di posizione del proprio datore di lavoro come dei competitor deve essere sotto mano, utilizzabile per attaccare come per difendersi.

Il ‘rapid response director’ di Sanders, il tipo in questione, si chiama Mike Casca ed è davvero significativo il modo (appunto ‘rapid response director’) in cui viene gergalmente definito.

Come i suoi rivali, deve replicare subito (rapidamente) e deve farlo correttamente pena il licenziamento in tronco.

Endorsement? Stravince Hillary!

Non tutti gli endorsement hanno l’onore della prima pagina.

Anzi.

Attori hollywoodiani, divi della televisione e comunque dello spettacolo, big della finanza, politici di grido (senatori, rappresentanti, governatori)… certo, anche se con qualche filtro.

Ma se per caso qualcuno scorre le liste ufficiali – esistono – delle personalità che si sono espresse a sostegno di questo o quel candidato trova elencati in totale migliaia di nomi.

Ai predetti vip, si aggiungono infatti ex politici soprattutto locali magari a riposo da decenni, funzionari federali e statali in carica o meno a bizzeffe,

giornalisti schierati e chi più ne ha più ne metta.

Davvero gli endorsement possono dirci chi tra i sopravvissuti candidati è il favorito quanto alla conquista dello scranno presidenziale?

Salvo sorprese, sì.

E allora, chi mai sarà in grado l’8 novembre di sconfiggere Hillary Clinton che vanta un numero di sostenitori superiore a quello di tutti gli altri messi insieme?

Trump, Hillary, Sanders, Danny De Vito…

“Sono stufo di sentirmi fare le stesse domande dalle stesse persone!”, con queste parole Donald Trump ha giustificato la decisione presa ieri in conseguenza della quale non parteciperà al dibattito televisivo in programma il 21 marzo.

Comprensibilissimo.

Nel frattempo, visto e constatato che Hillary Clinton, sicura che sarà proprio il magnate nuovayorchese l’avversario novembrino, ha preso ad attaccarlo, Donald ha fatto pubblicare un video nel quale l’ex first lady è doppiata da un cane abbaiante.

Una vera finezza.

Nel mentre, in cerca di notizie di colore, qualcuno scopre che Bernie Sanders sa cantare (musica folk, naturalmente) e ha fatto l’attore.

Infine – occorre pure divagare ogni tanto – a favore del senatore del Vermont si è pubblicamente pronunciato Danny De Vito.

Sposterà anche solo un voto questo endorsement?

Gran Old Party, il piano di sopravvivenza

Dove e  come è ancora possibile battere Donald Trump?

I vertici del partito repubblicano, vista la situazione, ritirato il prediletto Marco Rubio, si aggrappano non tanto a Ted Cruz – secondo in graduatoria ma inviso al punti di non avere ricevuto finora nessun endorsement di un qualche peso – quanto al sopravvissuto, finora, John Kasich, centrista, moderato e considerato (anche nei sondaggi) in grado di battere Hillary Clinton nella general election.

Il governatore dell’Ohio, vincitore nel suo Stato, ha peraltro serie possibilità quanto alla nomination, fra l’altro staccato come è in fatto di delegati?

Ecco, l’idea che serpeggia non è tanto quella di proiettare non si sa come Kasich in testa alla corsa, quanto di fare in modo che, vincendo in un certo numero di Stati ancora in calendario, con l’obiettivo aiuto di un Cruz che corre per se stesso, riesca ad impedire a Trump di arrivare alla convention con la maggioranza assoluta dei delegati già in tasca.

Nel caso, un una ‘brokered convention’, tutto sarebbe possibile: la candidatura dello stesso Kasich, quella di un terzo, il condizionamento (onde evitarne l’ira e l’eventuale fuoriuscita di Trump) del magnate nuovayorchese con l’imposizione di un vice gradito e di una ‘platform’ (il programma) adeguato alle ‘normali’ istanze GOP.

Guardando ai prossimi appuntamenti elettorali, dove Kasich può dire seriamente la sua catturando i consensi necessari all’operazione?

Il 22 marzo, Arizona e Utah?

Almeno nello Stato mormone, molte le speranze visto l’appoggio di Mitt Romney.

Il 5 aprile in Wisconsin?

Pare di sì.

Lasciando da parte – peccato, per lui – il New York del 19 aprile, e passando al 26 dello stesso mese, il Connecticut, il Delaware, il Maryland, la Pennsylvania, il Rhode Island, potrebbero andare bene o almeno benino.

Se sopravvive al successivo maggio, il governatore sarà chiamato al redde rationem il 7 giugno in California.

Un bel mucchio di delegati da conquistare, laggiù.

Un percorso complessivamente accidentato a dir poco.

Una battaglia che va combattuta, comunque, anche se gli spiragli non sono molti, anche se gli ostacoli sono millanta.

Anche, infine, se, pur vinta, non portasse lo stesso Kasich a nulla, favorendo magari un terzo o un quarto.

Fossi in Donald Trump, fra non molto, comincerei a domandarmi se, per tagliare la testa al toro, non sia opportuno chiedere all’uomo dell’Ohio di accompagnarmi come vice nel ticket novembrino.

Vedremo.