Bloomberg dice no, realista e poco americano

E alla fine, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg ha detto no.

Testualmente, ha dichiarato:

“Mi e’ chiaro che se entrassi nella corsa non potrei vincere”, quindi…

Pragmatico (i sondaggi lo bocciavano), realista e davvero poco ‘americano’ (d’altra parte si dice da sempre che New York per qualche verso non si identifica con l’America!), il Nostro.

Non sono infatti gli USA il Paese in cui spesso le battaglie vanno combattute anche, se non soprattutto, quando perdenti?

Bloomberg non ha guardato all’ideologia, all’ideale, al cuore.

Non aveva evidentemente nessuna ‘missione’ da compiere.

Ha aridamente fatto due più due e ha salutato tutti.

Un ragioniere?!

Ho una punta d’amaro in bocca.

E voi?

E c’è una domanda da porsi:

Allorquando avanzò l’idea di candidarsi non sapeva l’ex sindaco che mai nella Storia un ‘terzo’, un indipendente è riuscito a vincere, che la situazione data è tale per cui un’avventura di tal fatta non aveva sbocchi e che pertanto la sua discesa in campo non poteva avere esiti positivi?

Non ricordava che perfino il gigantesco, impetuoso, travolgente Theodore Roosevelt non era riuscito nell’impresa?

I mille candidati “minori”

Seguiamo con interesse e partecipazione il confronto tra democratici e repubblicani senza tenere nella minima considerazione i mille (quasi e basti scorrere l’intero elenco guardando anche a quanti tra costoro si propongono per movimenti sostanzialmente inesistenti e in un solo Stato per rendersene conto) candidati ‘minori’.

Peraltro, un paio tra loro – per il momento, non ancora ‘nominati’ ma assai probabili sono almeno da ricordare.

E parlo di Gary Johnson e Jill Stein.

Diamo loro un’occhiata e degniamo di una successiva citazione qualche altro pretendente espressione di partiti che hanno già deciso la nomination 2016:

Gary Johnson – già governatore per i repubblicani del New Mexico e già candidato per il Libertarian Party nelle presidenziali del 2012 con un bottino di quasi unmilione e trecentomila voti, oggi intenzionato a riconquistare l’investitura del suo movimento nella convention che si terrà in Orlando a fine maggio e soprattutto ad iscriversi in tutti i cinquanta Stati – è un pretendente a White House con un certo pedigree e alquanto solide (nel loro limite) basi elettorali, per non parlare delle basi ideologiche certamente interessanti, vicine (tanto che spesso tra GOP e Libertarian avvengono degli scambi in merito alle candidature e si pensi a Ron Paul per esempio) a quelle di una certa ala repubblicana.

Jill Stein – attivista del Green Party e già in pista nella trascorsa tornata elettorale quando conquistò poco meno di quattrocentosettantamila suffragi a livello nazionale.

Laureata ad Harvard è donna di carisma purtroppo (per lei) prigioniera di una ideologia oramai sorpassata (assorbita come è, sia pure epidermicamente, da tutti) e in netto declino.

Johnson e Stein a parte, e ricordando che i partiti politici USA, lungi dall’essere solo due come si pretende, sono una pletora, eccoci ad elencare alcuni ‘nominati’:

Bob Whitaker, per l’American Freedom Party

Farley Anderson, per l’Independent American Party

Gloria La Riva, per il Party of Socialism and Liberation

Jim Hedges, per il Prohibition Party

Emidio ‘Mimi’ Soltysik, per il Socialist Party USA

Alyson Kennedy, per il Socialist Workers Party

Chris Keniston, per il Veterans Party of America

Monica Moorehead, per il Workers World Party

Quanti voti prenderanno?

Per dare un’indicazione appunto indicativa, nel 2012, Virgil Goode – quinto in graduatoria dopo Obama, Romney, Johnson e Stein – per il Constitution Party conquistò lo zero dieci per cento dei suffragi, mentre Rocky Anderson (sesto), del Justice Party, lo zero virgola zero tre.

Come si ferma Donald Trump?

Quattro/cinque marzo?

Dipende, visto che in Italia è notte mentre ovviamente in America no.

Notizie e ipotesi in campo repubblicano.

Per cominciare, il cardiochirurgo Benjamin Carson ha lasciato la corsa GOP, una corsa che lo aveva visto nelle posizioni di testa per qualche momento nei sondaggi, prima che gli elettori fossero chiamati alle urne.

Dopo, quando il gioco si è fatto duro, solo delusioni.

Ecco, quindi, che al momento i candidati repubblicani rimasti sono quattro.

Uno, John Kasich, che non molla perché aspetta il suo Ohio (e non manca molto), lo Stato che da tempo infinito è estremamente importante visto che in sede di general election vota sempre per il candidato vincente.

Un altro, Marco Rubio, che pare avvicinarsi al KO, se è vero che in Florida, il suo Stato, dovrebbe perdere da Trump nettamente (e basta comunque che non vinca, dato il sistema ‘winner takes all’ colà adottato).

Un terzo, Ted Cruz, decisamente più capace e resistente del previsto, ma che in non poche zone del Paese appare un pesce fuor d’acqua per le sue posizioni estreme in campo etico/religioso.

Un quarto, Donald Trump, col vento in poppa ma che nessuno (o quasi, si pensi a Chris Christie) nell’establishment si sogna di volere.

A tale ultimo riguardo, dopo Mitt Romney – che ha invitato, (vivacemente, non c’è che dire)  a votare chiunque tranne Trump – si è fatto vivo anche John McCain che ha detto, in altri termini, la medesima cosa.

Ecco, è oramai ultra chiaro che il partito repubblicano cercherà in ogni modo di fermare il nuovayorchese e la speranza dei ‘vecchi’ è quella di arrivare a una ‘brokered convention’, cioè a una sessione congressuale il cui vincitore non sia predeterminato, non abbia cioè conquistato prima la maggioranza assoluta dei delegati.

Nel caso, i giochi si riaprirebbero.

Voci incontrollate parlano di una candidatura di Romney non a livello nazionale ma in in qualche ristretto numero di Stati (Utah, naturalmente essendo mormone, California…), giusto per raccattare qualche delegato e frammentare gli schieramenti.

E se altri maggiorenti facessero altrettanto…

Uno scenario interessantissimo e caotico.

E si potrebbe tornare al 1912 GOP, quando Teddy Roosevelt, in testa dopo le primarie (che a livello nazionale si tenevano per la prima volta e in non molti Stati) quanto a numero di delegati ma non abbastanza, fu battuto in sede di convention da William Taft e per conseguenza uscì dal partito e corse impetuosamente da indipendente sconfiggendo alla grande il rivale interno ma consegnando lo scranno presidenziale a Woodrow Wilson.

In quella circostanza, se sommati, i voti di Teddy e di William – quindi repubblicani – erano molti di più ma il sistema ‘winner takes all’ della general election permise a Woodrow di prevalere.

Un Donald, quindi, costretto a uscire?

Davvero nel GOP c’è chi vuole questo?

Un muoia Sansone con tutti i Filistei, infine?

Nel frattempo, si avvicina la Florida (il 15 marzo), ma prima (l’8) c’è il non trascurabile Michigan.

Colà, il magnate fulvo è in testa nelle intenzioni di voto.

Davanti non a Cruz ma a Rubio (la cui fiammella si riaccenderà?).

Nel frattempo, c’è chi si chiede cosa farà Jeb Bush che della Florida incombente è stato governatore due volte.

Endorsement?

Uno sgambetto a Rubio?

Tacerà?

Meglio, forse.

Ricordo che Indro Montanelli, all’epoca direttore de Il Giornale, sosteneva che appunto il direttore di un quotidiano non deve mai ammalarsi perché l’editore potrebbe accorgersi che le cose vanno avanti bene anche senza di lui e quindi…

Si pensi a un Bush che si produce in un endorsement che non sposta un voto…

Catastrofico.

E lasciamo da parte per un momento il campo repubblicano.

Guardiamo – nel mentre proprio tra i dem il 6 si voterà nel Maine laddove Sanders dovrebbe trovare una boccata d’aria – dall’altra parte.

Una ipotesi clamorosa, lanciata da qualcuno tra gli osservatori: Hillary Clinton in galera!!!

L’emailgate che esplode e la carriera della ex first lady finita, dietro le sbarre con lei.

Fantascienza.

Certo, ma che scenario nel caso, dato che a quel punto i giochi si riaprirebbero (frase fatta ma corretta) e qualcun altro, al momento ai margini, scenderebbe nell’agone!

Un vecchio augurio diceva “Che tu possa vivere in tempi interessanti”.

Se volgiamo lo sguardo oltre Atlantico alla lunga corsa in atto verso White House e la paragoniamo alle ultime due – quelle vinte da Barack Obama – quanto maggiore interesse davvero.

Viene da dire, evviva!

Possibile scissione nel GOP?

Allora, Mitt Romney, in un discorso molto atteso anche perché non pochi ritenevano potesse annunciare la propria candidatura, ha invitato esplicitamente gli elettori repubblicani a non votare Donald Trump.

Questi, a tamburo battente, ha dato all’ex candidato GOP del “cadavere” aggiungendo che il suo intervento è “irrilevante”.

Un certo numero di osservatori e un gruppo notevole di media, subito dopo, hanno cominciato a chiedersi se non si sia in vista – magari alla convention – di una scissione nel partito dell’elefante.

Storicamente parlando, scissioni in sede di convention o subito dopo se ne sono avute.

Possiamo qui ricordare quanto occorso in campo democratico nel 1860.

Il partito in questione si spaccò arrivando a proporre due candidati, Stephen Douglas e John Breckinridge.

Risultato?

Vinse il repubblicano Abraham Lincoln!

Famosissima la scissione operata dall’ex presidente repubblicano Theodore Roosevelt.

Si era nel 1912 e i GOP gli avevano preferito l’uscente William Taft.

Tuoni e fulmini: grande, impetuosa campagna di Teddy che arriva secondo (il miglior risultato di sempre di un ‘terzo’) ma consegna White House al democratico Woodrow Wilson.

Nel 1948, ancora tra i democratici, l’ala conservatrice del partito, non accettando la ricandidatura di Harry Truman, si staccò creando il movimento dei ‘dixiecrats’ che candidò invano J. Strom Thurmond.

George Wallace, poi, nel 1968, rifiutando la piattaforma evidentemente non segregazionista dei democratici, si propose come indipendente raccogliendo non pochi voti nel Sud.

Interessante l’avventura di John Anderson nel 1980.

Repubblicano, cercò, uscendo dal partito, di opporsi come terzo incomodo da indipendente a Reagan e a Carter ma ottenne solo un tiepido successo ‘di stima’.

Come si vede, nessuno degli scissionisti ha mai vinto.

Mitt Romney torna in corsa? Forse, chissà…

In corsa nelle primarie repubblicane del 2008.

Invano, fu sconfitto da John McCain.

Candidato nel 2012 nella general election novembrina.

Invano, fu battuto da Barack Obama.

Qualcuno dice, sostiene, deciso a scendere in campo in questo 2016 con l’intento di fermare la corsa verso la nomination di Donald Trump.

Vedremo…

Guardando, peraltro, alla oramai lunga storia delle presidenziali americane, tralasciando figure ‘minori’ e i candidati di partiti poco significativi dal punto di vista dei risultati (per quanto certamente ideologicamente importanti) come Eugene Debs che si cimentò per i socialisti una infinità di volte, pochi gli aspiranti a White House all’inizio della loro avventura bocciati e ripropostisi in almeno tre occasioni.

Nell’ordine temporale:

John Adams, sconfitto nel 1789, nel 1792 e vincente nel 1796 (poi, ancora battuto nel 1800, ma quattro anni in sella li aveva avuti);

Henry Clay, che perse nel 1824, nel 1832 e nel 1844;

William Jennings Bryan, non vincente nel 1896, nel 1900 e nel 1908.

Come si vede, vicende lontane e in una sola occasione coronate dal successo.

Ove – tralasciando, quanto a Mitt, la battuta d’arresto in sede di primarie del 2008 che in effetti, guardando bene, lo pone in una situazione diversa rispetto all’Adams, a Clay e a Bryan, tutti incoronati dalla nomination nelle tre occasioni avute – si volesse dare un’occhiata a quegli esponenti politici capaci di riprendersi dopo una prima sconfitta (per Romney, quella del 2012) e vincere, ecco nell’ordine:

Thomas Jefferson, che perse nel 1796 e vinse una prima volta nel 1800 sia pure in un modo alquanto complicato (ma questa è un’altra storia);

John Quincy Adams, battuto formalmente nel 1820 e in sella dopo la tornata del 1824;

William Harrison, perdente nel 1836 e vittorioso quattro anni dopo;

Richard Nixon, sconfitto nel 1960 e capace di risorgere nel 1968.

Per qualche verso diversi ancora i casi di Ronald Reagan e George Herbert Bush, fermati alla loro prima esperienza nelle convention GOP (a Reagan, poi vittorioso la prima volta nel 1980, fu preferito Gerald Ford nel 1976 mentre il citato Bush, nel 1980, dovette cedere proprio a Ronnie salvo succedergli dopo la tornata del 1988).

Nel caso dovesse Romney riprovarci, vedremo alla fine in quale categoria collocarlo.

Così parlò Donald Trump (dopo il supermartedì)

“Possiamo ‘espandere’ il GOP”.

“Io sono un ‘unificatore’ ”

Queste le due più importanti affermazioni fatte da Donald Trump stanotte parlando dalla Florida dopo il supermartedì.

Glissando – come, del resto, ha fatto Hillary Clinton tra i democratici – sul mancato KO dei suoi avversari (Cruz resta in corsa come Sanders dall’altra parte), il magnate ha inteso sottolineare un fatto e una aspirazione.

Il fatto – ed era già avvenuto prima – che un assai maggior numero di elettori si sia recato quest’anno ai seggi del GOP per votare rispetto per esempio al 2012, elettori attratti dal suo carisma, per quanto negativo molti osservatori lo ritengano.

E questa circostanza, se la situazione resterà tale, gli renderà meno ostico il confronto con la Clinton che i sondaggi danno vincente nell’eventuale, ma oramai probabile, scontro nella general election.

L’aspirazione è quella di unificare il partito.

Cosa che, se davvero vuole arrivare a White House, è necessaria perché se anche una sola delle differenti ‘anime’ repubblicane lo abbandonerà a se stesso l’esito novembrino non potrà che essere negativo.

Supermartedì

L’idea stessa del ‘supermartedì’ è abbastanza recente.

(Rammento che è di martedì – esattamente “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre” – che il popolo americano viene chiamato alle urne per eleggere il presidente ed è in qualche modo per essere fedeli alla citata disposizione che si è scelto di collocare nel secondo giorno della settimana il largo numero di consultazioni così complessivamente denominato).

Eccessiva – si ritenne sul declinare degli anni Ottanta – l’importanza data dai media in particolare ai due atti tradizionalmente introduttivi della serie di votazioni popolari per la scelta dei delegati alle convention: ovviamente, nell’ordine e per tradizione, il caucus dell’Iowa e la primaria del New Hampshire.

Eccessiva per varie ragioni ma in specie perché il voto in questi due Stati, in qualche modo ‘minori’ e ‘periferici’ politicamente parlando, pur apparendo mediaticamente tale, non è assolutamente rappresentativo delle volontà elettorali a livello nazionale.

Ora, cosa accadrà di speciale, di incisivo, di assai indicativo anche se non determinante, martedì 1 marzo e perché, quindi, occuparsene con attenzione?

Essenzialmente, andando i cittadini alle urne – tra dem e GOP, tra primarie e caucus – in Alabama, Alaska, Arkansas, Colorado, Georgia, Massachusetts, Minnesota, North Dakota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Wyoming e perfino nelle Isole Samoa (!?) – pertanto da Nord a Sud, da Est a Ovest, per quasi ogni dove – si constaterà la presa appunto a livello nazionale dei diversi candidati e, attribuendosi nell’occasione un numero davvero notevole di delegati, in entrambi gli schieramenti, si avrà un quadro molto più chiaro della situazione.

Il trend e i sondaggi ci dicono che il primo di marzo sarà un giorno favorevole ai due attuali leader della maratona verso la nomination.

Tra i democratici, l’ex first lady si appresta a dare un notevole gancio alla mascella al senatore del Vermont che è dato in gravissime difficoltà soprattutto (ma non solo) in tutti gli Stati meridionali avendo, a quanto pare, dalla sua parte, oltre allo Stato dal quale proviene, solo il Massachusetts.

“Giovanotto, la politica è una cosa strana”

1932, Chicago, convention democratica.

Vecchie regole: per ottenere la nomination occorre conquistare i due terzi dei delegati e quindi nessuno tra i candidati arriva al redde rationem in Illinois già incoronato.

Lotta dura senza paura.

Non si fanno prigionieri.

Il governatore del New York, Franklin Delano Roosevelt è in vantaggio ma comunque, nelle prime votazioni, in qualche difficoltà.

Non decolla.

Fra gli avversari – oltre al ‘papista’ (è un cattolico ed è stato sconfitto quattro anni prima da Herbert Hoover) Alfred Smith – lo speaker della Camera dei rappresentanti John Garner, capace di battere Franklin in un paio di primarie di peso.

Lo stallo viene improvvisamente superato quando proprio ‘Cactus Jack’ – questo il soprannome del texano Garner – annuncia il suo appoggio a Roosevelt in cambio della candidatura alla vice presidenza.

Un cronista alle prime armi, nell’occasione, lo avvicina per chiedergli come sia possibile vista la lontananza ideologica e programmatica tra i due.

“Giovanotto, la politica è una cosa strana”, è la risposta che il giovane si sente dare dall’esperto e smaliziato Garner.

(Per inciso, il texano sarà vice del secondo Roosevelt per due interi mandati prima di ritirarsi a vita privata).

Credo che oggi altrettanto potrebbe dire il governatore del New Jersey Chris Christie, fino all’altro ieri feroce rivale di Donald Trump e oggi suo alleato.

Quale la promessa ricevuta in cambio, viene da chiedersi?

A meno che non si voglia credere che l’unica ragione per l’endorsement di Christie sia davvero la convinzione da lui espressa che a questo punto solo il nuovayorchese possa battere Hillary Clinton nella general election.

Mah…

Guardando ai due superstiti rivali di Trump – Kasich e Carson sono troppo lontani per contare qualcosa in tema – Ted Cruz, finora e come gli ha gettato in faccia in un recente dibattito Trump, non ha ricevuto nessun appoggio di rilievo.

Corre da solo, contro tutto e tutti, e alla fine il fatto dovrebbe nuocergli.

Il senatore Rubio, invece, coccolato dall’inizio dall’establishment GOP, colleziona endorsement.

Dopo quello di Nikki Haley, ecco negli ultimi giorni accorrere in suo soccorso il veterano Bob Dole – invano candidato nel 1996 contro Bill Clinton – l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty, il governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson…

Qualcuno tra i ‘vecchi’ – è storia recentissima – tra quanti temono nel partito l’antipartitico Donald, ha chiesto ai due ‘latinos’ di arrivare al dunque.

“Uno fra voi si ritiri”, è l’invito non raccolto.

Certo è che da dopo il supermartedì datato 1 marzo molte cose saranno più chiare e magari decise in casa repubblicana.

Ove si guardi allo schieramento opposto, per quanto Bernie Sanders si agiti, considerato soprattutto lo schieramento nella misura di venticinque a uno a favore di Hillary tra i superdelegati (un tema che ho già affrontato) scelti non dagli elettori ma dai maggiorenti del partito (!!!), visto il favore del quale gode l’ex first lady tra i neri, ritengo che i giochi – a meno di un inciampo giudiziario della Clinton – siano in qualche modo fatti.

Il ‘socialista’ del Vermont probabilmente continuerà comunque la campagna.

Gli idealisti – e lo misureremo da questo punto di vista – sanno benissimo che le uniche battaglie che meritano di essere combattute sono quelle perse!

(E se poi, una volta sconfitto per la nomination dem, il senatore del Vermont decidesse sul serio – si era sussurrato tempo fa al riguardo – di presentarsi come ‘terzo incomodo’, da indipendente, l’8 novembre?)

Trump può vincere a novembre?

Bene (per modo di dire), ci siamo sbagliati tutti!

Non uno, difatti, tra esperti e commentatori avrebbe giocato un soldo bucato sulla nomination tra i repubblicani di Donald Trump.

“E’ un fuoco di paglia…

Non ha un vero programma…

Le spara troppo grosse…

Ha l’establishmente del partito contro…”

e via argomentando.

Beh, siamo alla vigilia del ‘supermartedì’ e non pochi adesso – dopo il filotto di tre vittorie consecutive del miliardario nuovayorchese e guardando ai sondaggi che lo danno in testa quasi ovunque (il Texas pare stia ancora dalla parte del ‘suo’ senatore Ted Cruz, e questa è la ragione del “quasi” or ora vergato) lo vedono già incoronato o pressappoco.

A questo punto, ci si può legittimamente chiedere se il prossimo 8 novembre, opposto che fosse a Hillary Clinton (tra i dem, Sanders ha tutti i superdelegati contro e sta scalando l’Everest a mani nude e con le ciabatte), Donald avrebbe i numeri dalla sua.

Parrebbe di no, salvo nel caso in cui l’appena citato senatore del Vermont, sconfitto nell’asinello, si candidasse da indipendente portando via all’ex segretario di Stato un buon numero di voti sulla sinistra.

Ma, forse, ove si guardi con la dovuta attenzione ai recenti accadimenti negli Stati dove si è votato con particolare riferimento al numero degli accorsi alle urne, occorre tenere in considerazione un differente fattore.

Il numero dei repubblicani che si sono recati a votare in Iowa, New Hampshire, South Carolina e Nevada è, dove più (anche, molto più) dove meno, superiore a quello dei votanti negli stessi Stati quattro anni fa.

Se questa è la tendenza (lo verificheremo prestissimo, già martedì 1 marzo), se i GOP andranno in massa ai seggi anche nella general election, la da loro odiatissima Hillary potrà essere battuta.

Il richiamo populista e antipolitica di Trump e il dispetto nei confronti della consorte di Bill potrebbero portare il ‘dark horse’ alla Casa Bianca.

Fantapolitica?

Tutto quanto va accadendo – lo ripeto – era considerato fantapolitica solo poche settimane fa!

Perché gli ispanici votano Trump

Sorpresa!

All’incirca il quarantaquattro per cento degli ispanici residenti in Nevada – tra quanti si sono recati ai seggi nell’appena effettuata votazione indetta dal GOP – si sono espressi a favore di Donald Trump.

Un risultato inaspettato dai più se non da tutti, viste le dure posizioni del magnate nuovayorchese in tema di immigrazione.

Considerata in specie la, ribadita ad ogni pie’ sospinto, intenzione di costruire – materialmente! – un muro che segua e segni tutto il confine USA/Messico.

Tenuto altresì conto del fatto che sia Rubio che Cruz sono appunto ispanici.

Due le considerazioni al riguardo.

La prima: generalmente – anche se negli Stati Uniti tale fenomeno non ha mai avuto un peso assoluto – generalmente, gli immigrati si collocano a destra, tra i conservatori, nell’arco delle posizioni politiche.

La seconda: è in qualche modo psicologicamente ovvio che gli immigrati in regola, oramai cittadini USA tanto da potersi iscrivere alle liste elettorali e da votare (repubblicano, per di più), non desiderino che altri, sbandati e disposti a tutto, arrivino a rendere loro difficile la vita, a sottrarre loro il lavoro e via dicendo.

Con buona probabilità questo atteggiamento delle minoranze – grosse e decisive, in molti Stati, minoranze – ispaniche si ripeterà altrove nel corso della maratona elettorale del partito dell’elefante.

Si vedrà infine, l’8 novembre, se anche in sede di general election gli ispanici preferiranno Trump (se questi sarà effettivamente nominato).