Merrick Garland alla Corte Suprema?

“Se i senatori repubblicani rifiuteranno sarà il segno che non c’è rispetto per la Costituzione e oramai tutto è soggetto a una politica meramente partigiana”.

Così il presidente Obama dopo avere presentato alla stampa il giudice Merrick Garland, attuale presidente della corte d’appello di Washington D.C., da lui indicato giudice della Corte Suprema in sostituzione del defunto Antonin Scalia.

Ora, a prescindere dalle doti di Garland – che nessuno pare mettere in questione – e lasciando da parte per il momento l’impatto che la scelta del presidente può avere sulla campagna elettorale in corso, quel che davvero sorprende è che parole del genere escano dalla bocca di un democratico, quando, storicamente, il più feroce attentato politico alla Corte fu opera nientemeno che di Franklin Delano Roosevelt, icona del partito dell’asinello.

Se l’eventuale (per il vero, già dichiarata) opposizione alla ratifica della nomina ad opera dei senatori GOP è “segno che non c’è rispetto per la Costituzione” nonché del prevalere di “una politica meramente partigiana”, cosa si deve dire dell’azione intrapresa dal predetto F.D. Roosevelt all’inizio del suo secondo mandato?

In grave contrasto con la Corte dell’epoca che, per così dire, non gradiva molte delle leggi volute dal presidente in attuazione del ‘New Deal’, il Nostro pensò bene di ipotizzare un vero stravolgimento del supremo organo.

Propose, infatti, che, in quanto capo dello Stato, gli fosse consentito di nominare un nuovo giudice per ogni membro del consesso che avesse compiuto settant’anni.

E visto che gli ultrasettantenni erano i componenti della Corte a lui avversi…

Per fortuna, non solo l’opposizione repubblicana ma anche non pochi tra i democratici si dichiararono contrari a tale inghippo e il presidente dovette abbandonare ogni velleità in cotal senso.

Franklin Delano Roosevelt era, lo ribadisco, democratico.

Lo ricordo ad Obama, il quale, vista la conoscenza che ha dimostrato di non avere della storia istituzionale USA (nel discorso di insediamento il 20 gennaio 2009 disse che era il quarantaquattresimo ‘americano’ a giurare come presidente mentre, pur essendo il quarantaquattresimo capo dello Stato, era invece il quarantatreesimo ‘americano, dato che Grover Cleveland, eletto due volte con un intervallo, è conteggiato come ventiduesimo e ventiquattresimo inquilino di White House), con ogni probabilità non lo sa!

Dopo il ‘minisupermartedì’

A parte il Missouri – a quest’ora ancora ‘too close to call’ sia nel campo democratico che in quello repubblicano (Trump e Cruz i contendenti) – i risultati dei confronti elettorali del ‘minisupermartedì’ 15 marzo sono chiari.

Tra gli aderenti al partito dell’asinello, Hillary Clinton consolida il proprio vantaggio sull’unico rivale rimasto, il senatore del Vermont Bernie Sanders.

Quest’ultimo si è difeso bene nel citato Missouri dove potrebbe prevalere, ha perso di stretta misura in Illinois, ma non è stato in grado di impegnare la contendente nei tre Stati rimanenti e in specie in Florida dove è andato al tappeto (sessantaquattro per cento l’ex first lady, trentatre per cento lui).

Sanders è per ora (ma con poche possibilità) in salvo perché l’attribuzione dei delegati tra i democratici è secondo il metodo proporzionale.

Nel campo opposto – laddove spesso e nel caso specifico si vota col ‘winner takes all’, tranchant, che porta più velocemente alla nomination ma che scontenta non poco i perdenti (parlo degli elettori) – Donald Trump è una valanga.

Sempre ricordando il ‘too close to call’ (al momento in cui scrivo) del Missouri, ha catturato tutti i delegati in palio in Illinois, North Carolina e Florida (il bottino più consistente: novantanove).

Ha ‘steso’ per il conto totale Marco Rubio, che dopo la debacle nel suo Stato si è ritirato.

Ha dato una lezione a Ted Cruz che, forse, lo contiene solo nel pluri citato Missouri.

Sulla sua strada, oltre al senatore del Texas, solo il governatore dell’Ohio John Kasich che ha prevalso abbastanza bene nello Stato con capitale Cleveland.

Hillary avrebbe (condizionale) oggi millecinquecentosessantuno delegati dalla sua contro gli ottocento di Sanders, quando per la nomination dem ne occorrono duemilatrecentoottantadue.

Trump avrebbe (condizionale) oggi seicentoventuno delegati quando la nomination GOP è fissata a milleduecentotrentasette.

Fra poco – il 23 marzo – cadrà l’anniversario della discesa in campo di Ted Cruz, il primo candidato a dichiararsi tale.

Un anno di contrapposizioni, lotte ideali e ideologiche, strategie vincenti o no, soprattutto un anno di confronti, di vittorie, di sconfitte.

Nessuno il 23 marzo 2015 avrebbe fatto il nome di Donald Trump, e questa è la sorpresa, la grande sorpresa.

Tutti facevano il nome di Hillary Clinton, e questa è la conferma.

Il ‘peso’ dell’Ohio

15 marzo 2016.

Certo, oggi si vota in Florida, che assegna un numero incredibile di delegati.

Certo, si vota in Stati significativi come l’Illinois.

Si va alle urne in Arizona e in Missouri.

Ma è all’Ohio che occorre guardare.

In prospettiva.

Dal 1948 al 2012, infatti e con la sola eccezione del 1960 (gli elettori locali preferirono Nixon mentre a livello nazionale, come tutti sanno, prevalse Kennedy), il candidato che nella general election vince in quello Stato conquista la Casa Bianca.

Certo, oggi non si vota per atterrare a Washington ma solo in prospettiva.

Ma se per caso il governatore John Kasich – rimasto invero in corsa per la nomination GOP solo per riuscire a conquistare il suo Ohio – uscisse vincitore dalle urne si potrebbe a cuor leggero dipoi escluderlo dal ticket ?

E se per caso Bernie Sanders riuscisse a sconfiggere colà la rivale Hillary i giochi in casa democratica potrebbero riaprirsi?

Occorrerà, ovviamente, guardare al ‘combinato disposto’ e cioè a tutti i risultati di questo ‘mini supermartedì’, ma, come detto, con un occhio particolare, all’Ohio.

Florida, Illinois, Ohio: previsioni di voto

Ancora ventiquattro ore e, a quel che dicono i sondaggi, Donald Trump avrà guadagnato un bel numero di delegati nel campo repubblicano staccando pertanto viepiù i suoi avversari nella corsa alla nomination.

Ecco – tra le mille proposte da un numero infinito di istituti ora in azione – le intenzioni di voto più attendibili espresse (ricordiamoci che pochi giorni fa Sanders in Michigan era dato indietro di venticinque punti e ha invece battuto la Clinton) nei tre Stati.

Florida, Trump quarantatre per cento, Rubio ventidue, Cruz ventuno (e si pensi che Rubio, che rischia di arrivare terzo, è senatore dello Stato in questione);

Illinois, Trump trentaquattro per cento, Cruz venticinque e Kasich ventuno;

Ohio, Kasich (governatore dello Stato) trentanove per cento, Trump trentatre e Cruz diciannove.

Se tali previsioni fossero confermate, la stella di Marco Rubio tramonterebbe definitivamente ma resterebbe invece in corsa John Kasich in specie ricordando l’importanza che il suo Stato ha in sede di general election.

Più articolato il fronte democratico.

Hillary è nettamente in testa in Florida dove dovrebbe vincere facilmente.

E’ in leggero vantaggio in Ohio.

E’ leggermente indietro in Illinois.

Ora, dopo aver visto Bernie Sanders oramai molte volte all’opera, sappiamo quanto siano incisive le sue ultime mosse.

Si può pertanto ritenere che alla fine la Clinton mantenga la Florida ma perda in Ohio e Illinois.

‘Maverick’, a proposito di Donald Trump

Donald Trump, giustamente – le sue posizioni ideologiche (!?) e politiche sui differenti temi non fanno riferimento al partito repubblicano nel quale e per il quale aspira alla nomination e conduce le danze – da quanti conoscono l’America e ben comprendono come le sue evoluzioni siano trasversali e non riconducibili affatto semplicemente, rozzamente, alla destra (come in Europa e in Italia, appunto rozzamente, si dice e scrive), viene definito ‘maverick’.

Ma cosa significa questa parola?

‘To maverick: vagare, vagabondare’

Così il Ragazzini a proposito del verbo ora citato di uso ‘familiare’ negli USA.

Lo stesso Dizionario, parlando del nome ‘maverick’, fornisce due traduzioni relative ai diversi significati che il vocabolo ha assunto nel tempo.

In origine, sempre nel gergo familiare, indicava “vitello (o torello) senza marchio”.

Poi, figurativamente per derivazione, applicato anche ma non solo alla politica, “individualista, indipendente, chi non appartiene a partiti (o a fazioni)”.

Per completezza, aggiungo:

‘Maverick’: serie televisiva di notevole successo – in programmazione tra il 1957 e il 1962.

Interpretata da James Garner (tra il 57 e il 60) e da Jock Kelly – narrava delle avventure di due fratelli giocatori di poker nel West alle prese con carte e donne.

‘Maverick’: film hollywoodiano datato 1994, per la regia di Richard Donner, interpretato da Mel Gibson, Jodie Foster e James Garner.

Stessa ambientazione con qualche licenza, grande cast, pessimo risultato al botteghino.

Rubio: “In Ohio votate Kasich”

Dobbiamo pensare che le parole pronunciate ieri da Alex Conant, ‘spokesman’ del senatore della Florida Marco Rubio rappresentino l’opinione del candidato e non siano ‘voce dal sen fuggita’ anche perché non smentite successivamente.

Ebbene, il citato Conant – impegnato appunto in Florida a contenere il rampante Trump che, ove vincesse come dicono i sondaggi, cancellerebbe Rubio dalla corsa – ha detto:

“If you are a republican voter in Ohio, and you don’t want Donald Trump to be the nominee, John Kasich is your best bet!”

L’idea è evidentemente quella di uno scambio di voti.

Gli elettori di Rubio in Ohio – laddove il locale governatore è la sola ipotetica alternativa al nuovayorchese – votino appunto Kasich e (non detto ma ovviamente richiesto in cambio) quelli di Kasich si esprimano per Rubio in Florida.

Una idea non male, brillante forse, con ogni probabilità tardiva, e, in specie, che, guardando alle intenzioni di voto e visti i distacchi, soprattutto nello Stato del senatore di origini cubane, non dovrebbe funzionare.

Chi vivrà, vedrà!

Buzzurro, razzista e maschilista, oltre che bianco, l’elettore di Donald Trump?

Il Wall Street Journal – foglio, come si dice, autorevole – parla dell’elettore medio di Donald Trump e ne traccia un quadro devastante.

Si tratta, scrive, di un bianco (e va bene: votano, possono votare i bianchi, no?), buzzurro, razzista e maschilista!

Evviva.

Un modello di superficialità indigeribile, questa frettolosa analisi (se tale si può definire).

In primo luogo, perché qualifica in questi simpatici termini una larga fetta di elettori, una bella fetta di americani.

(Se si aggiungono ai tifosi ‘buzzurri’ di Trump quelli ‘bigotti’ di Ted Cruz dove arriviamo quanto a percentuali di improponibili, per un WSJ con la puzza sotto il naso, cittadini?)

Poi, perché non considera la realtà, il fatto – che va emergendo sempre di più – che un notevole numero di laureati e di esponenti della classe ‘colta’ si dichiarano disponibili a votare il magnate nuovayorchese.

Il quale, inoltre, va acquisendo simpatie anche tra le donne (evidentemente, stando al WSJ, tra quelle bianche, razziste e maschiliste).

Fatto è che Trump non si presenta in modo univoco e facilmente qualificabile.

Fatto è che non poche sono le sue sfaccettature (e anche le contraddizioni).

Si tratta ovviamente di un oggetto estraneo – un UFO? – trasversale, per alcuni aspetti perfino ‘sinistrorso’…

Quello che in gergo, in politichese, gli americani definiscono un ‘maverick’ che nessuno in America chiama ‘fascista’, come di contro capita a Cruz sentirsi chiamare.

Per dare un’idea per qualche verso più precisa (possibile farlo? possibile senza essere rozzamente tranchant?) dell’elettore ‘trumpiano’ si guardi alle caratteristiche che lo distinguono dall’elettore ‘cruziano’.

La prima?

E’ una persona che di religione e temi etici si occupa poco (Cruz, invece, è il puro rappresentante degli evangelici e della ‘religious right’).

E’ un elettore sui generis, che spesso in precedenza non è andato a votare per differenti ragioni solitamente non ideali o ideologiche (i ‘cruziani’, ideologicamente più agguerriti, se non vanno a votare è perché rifiutano il candidato per loro non ortodosso emerso vincente da primarie e convention).

E’ un deluso che spera in una ‘rivoluzione’ (il ‘cruziano’, ancora una volta semplificando brutalmente, è un nostalgico) e ‘odia’ politicanti e partiti.

E’ un cittadino che non si pensa ‘di destra’ tout court, anzi.

E si potrebbe nel confronto continuare con ‘sottodistinzioni’)…

E’, guardando ai democratici – significativo oltremodo che i dati emersi da primarie e caucus abbiano dimostrato che i repubblicani ai seggi in questa circostanza sono molti di più rispetto al 2012 mentre i dem di meno! – ancora i ‘trumpiani’ appartengono, in maggioranza, a quella larga fascia di cittadini (molti ispanici oramai integrati compresi) che temono fortemente l’immigrazione.

Al limite, non si riconoscono – non si riconoscono più? – nel ‘politically correct’ imperante a sinistra.

In ipotesi – qualcuno l’ha avanzata da subito – un ticket GOP Trump/Cruz, una unione tra ‘buzzurri’ e ‘bigotti’, avrebbe serie chance?

Come si dice, tutto è possibile, ma v’è da dubitarne.

(Scrivo quest’ultima riga e subito penso che sia un vero azzardo pronunciarsi oggi in merito.

Le cose cambiano, gli avvenimenti storici intervengono a spazzare via i quadri e i pronostici.

Se Bernie Sanders si proponesse come indipendente…

Se una brokered convention GOP bocciasse Donald e lo costringesse ad uscire…

Se…

Se…

Se..

Vale comunque e sempre la vecchia massima attribuibile a Rino Tommasi: “Solo chi ha il coraggio di fare previsioni può sbagliarle”.

Ma, nelle righe precedenti, ne ho fatte?)

Endorsement più o meno significativi

Ok, lo sappiamo: larghissima parte dello star system è o si dichiara democratico.

Nel campo, qualcuno sta col senatore del Vermont Bernie Sanders – il vecchio rivoluzionario (e non è davvero una novità che la rivoluzione la predichino i vecchi e non i giovani che al massimo si accodano più o meno entusiasti e comunque pronti a scomparire come neve al sole se il gioco dura troppo) – mentre il gruppone, alla fine indistinto, si schiera docilmente, gregge bene inquadrato, con Hillary.

I pochi divi repubblicani, proprio in quanto pochi, fanno più notizia.

Sappiamo già di Chuck Norris (Walker Texas Ranger) e del suo dichiararsi per il senatore Ted Cruz.

Abbiamo appreso di Arnold Schwarzenegger e del suo strano appoggio al governatore John Kasich.

Ora, mentre aspettiamo di conoscere la posizione di Robert Duvall e soprattutto di Clint Eastwood, due conservatori a tutto tondo e due veri ‘grandi’, ecco uscire allo scoperto un altro tra i premi Oscar GOP, John Voight (ai tempi, un numero uno e oggi noto purtroppo come ‘il padre di Angiolina Jolie’).

E dove si va a collocare?

Con Donald Trump, che nel suo endorsement definisce persona in grado di rispondere alle necessità attuali e future perché sincera e senza infingimenti, naturale, vera.

Uscendo dal seminato star system, ecco riapparire Carly Fiorina.

L’ex candidata – unica donna in corsa nel partito dell’elefante – ha partecipato a una manifestazione pro Ted Cruz, dichiarando di avere votato per lui nel suo Stato.

Ma tutte queste esternazioni, tutte queste simpatie, tutti questi abbracci, portano voti?

Spostano qualcosa?

O la gente li accetta distrattamente come cose in qualche modo dovute ma ininfluenti?

Solo folklore, alla fine?

Come altra volta ricordato, nel 1964, John Wayne, la cui fama e il cui prestigio erano enormi e al cui cospetto tutti i divi d’oggi, su questo piano e non solo, spariscono, sostenne a spada tratta Barry Goldwater.

Risultato?

Una delle peggiori sconfitte repubblicane di tutti i tempi.

Evviva!

Michigan: Hillary in crisi nera

Contro tutte le previsioni, smentendo ogni analisi, nel campo democratico, il senatore del Vermont Bernie Sanders ha vinto nel Michigan.

Di converso – e questa è la notiziona considerando i sondaggi e le mille opinioni a lei favorevoli nell’attesa espresse – Hillary Clinton ha perso.

Di poco, ma ha perso laddove non avrebbe mai pensato di perdere.

Una grossa crepa nella sua armatura.

Una spinta fortissima per il competitore.

Certo, tra poco fioriranno le analisi, si esamineranno non appena sarà possibile i flussi elettorali, si cercheranno le ragioni, ma quel che è certo e inconfutabile è, lo ripeto, che l’ex first lady ha perso contro ogni pronostico e aspettativa.

Guardando ai delegati, la sua posizione appare solida ma se, non conteggiando i superdelegati, si fa riferimento al voto popolare il suo vantaggio è minimo.

Chi se lo sarebbe immaginato solo un paio di mesi fa o anche più di recente?

Chi si sarebbe aspettato che, sempre con riferimento al volere espresso nelle urne, fosse più incerta la contesa democratica rispetto a quella repubblicana?

Si avvicinano Florida e Ohio: minacciosamente per lei?

Vedremo: come si cade così ci si può rialzare.

Il voto dell’8 marzo in casa GOP

E adesso guardiamo con maggiore attenzione ai repubblicani.

Donald Trump ha vinto in Mississippi col quarantotto per cento dei voti.

Buona la difesa di Ted Cruz, arrivato al trentasei.

John Kasich è terzo con il nove per cento.

Marco Rubio è disastroso – guardando alle attese e agli appoggi – al quarto gradino con un miserrimo cinque.

Nel Michigan – il più importante e significativo Stato nel quale si era chiamati alle urne – il magnate ha prevalso con il trentasette per cento.

Cruz e il redivivo Kasich se la sono giocata in volata per la seconda piazza tra il venticinque e il ventiquattro, mentre Rubio è caduto sotto il dieci.

Restano l’Idaho e le lontane Hawaii.

Al momento, nello Stato che ha per capitale Boise, prevale, e abbastanza nettamente, Ted Cruz.

Il nuovayorchese è comunque secondo, terzo Rubio qui non demolito.

Cruz, come si vede, tiene.

Il 15 si va in Florida e molte cose saranno infine chiare.