La Fondazione Italia USA ha seguito tutta la campagna elettorale americana per le elezioni presidenziali del 2020 con i commenti esclusivi di Mauro della Porta Raffo, saggista e giornalista, presidente onorario della Fondazione Italia USA, uno dei più qualificati esperti a livello internazionale di storia politica degli Stati Uniti e elezioni presidenziali americane. Tra i suoi numerosi libri, “Obiettivo Casa Bianca. Come si elegge un presidente” (2002), “I signori della Casa Bianca” (2005), “Americana” (2011), “USA 1776/2016 – Dalla Dichiarazione di Indipendenza alla campagna elettorale del 2016” (2015), “Le Cinquantuno Americhe” (2019), “USA 2020, tracce storiche, politiche, istituzionali” (2020).

17 gli Stati che si sono aggiunti al ricorso del Texas

Pochi giorni fa, l’Attorney General del Texas ha presentato un ricorso alla Corte Suprema federale perché esamini se Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin lo scorso 3 novembre non abbiano violato l’integrità delle regole del voto.
Di più, chiedendo che i 62 Grandi Elettori di competenza dei 4 non vengano ammessi al Collegio che il 14 dicembre deve eleggere il Presidente.
In ulteriore alternativa, che il Collegio stesso venga posticipato.
Al Texas si sono aggiunti a rendere decisamente più significativo il ricorso tutti gli altri Stati il cui Procuratore Generale è repubblicano:
Alabama
Arkansas
Florida
Indiana
Kansas
Louisiana
Mississippi
Missouri
Montana
Nebraska
North Dakota
Oklahoma
South Carolina
South Dakota
Tennessee
Utah
West Virginia.
Vedremo gli sviluppi sempre ricordando che la Corte può decidere in via preventiva se accogliere o meno un ricorso.

Hunter Biden indagato per questioni fiscali

Mancano davvero parecchi giorni – più di 40 – al 20 gennaio 2021.
All’Insediamento, cioè, di Joe Biden.
E cosa ci si può aspettare accada pressoché quotidianamente dopo una campagna elettorale tanto dura e contrastata e a seguito di un esito dai trumpiani contestato e non riconosciuto?
Un tranquillo scorrere del tempo?
Ovviamente, no!
Giunge però in qualche modo a sorpresa la notizia di una indagine per questioni fiscali aperta nei confronti del figlio di Biden Hunter.
A sorpresa, dato che il soggetto – decisamente sotto osservazione fino al voto e i cui ‘traffici’ erano stati denunciati da Donald Trump come criminali – pareva essere riuscito a uscire dalla luce dei riflettori.
Così non è.
Appresa la notizia, un amministratore repubblicano ha sollecitato la nomina di un Procuratore Speciale per indagare eccependo che “sarebbe grave se fosse poi un funzionario del genere ma scelto dal padre a farlo”.
Vedremo.

Pence proclamerà Biden!

Chi presiederà la seduta nella quale il prossimo 6 gennaio 2021 il Congresso USA ratificherà il voto del Collegio dei Grandi Elettori – fissato per lunedì 14 dicembre – che nomineranno Joe Biden Presidente.
Ovviamente, il Presidente del Senato a quel momento in carica e quindi Mike Pence.
È difatti per Costituzione dettato che la Camera Alta sia presieduta dal Vice Presidente degli Stati Uniti e, lasciando con Trump l’ex Governatore dell’Indiana l’incarico il 20 gennaio dopo…

‘Cooping’: Edgard Allan Poe a Baltimora

Ho altra volta parlato dei sistemi gangsteristici ideati e messi in atto per – non solo indirizzare – costringere e controllare il voto nelle varie parti del Paese USA nel volgere del tempo.
La violenza fisica usata.
I morti ammazzati.
Ad andar bene (?!), i suffragi in vendita.
Uno dei metodi più in opera era il cosiddetto ‘Cooping’.
Sotto elezioni, l’organizzazione addetta, ‘rapiva’ gli ubriachi, li manteneva forzatamente tali e li portava ai seggi facendoli votare ripetutamente.
Con buona probabilità, è quanto accadde ad Edgar Allan Poe nell’ottobre del 1849.
Fu trovato in pessime condizioni mentali e fisiche a Baltimora il 3 di quel mese quando in corso le elezioni per la Camera dei Rappresentanti statale.
Morì il successivo 7.

Dove Biden ha preso più voti popolari di Hillary Clinton

I dati come risultano nel Dave Leip’s Atlas of U.S. Presidential Elections il giorno 8 dicembre 2020.
Attenzione: il confronto è per così dire ‘interno’ e non tiene conto del voto andato ai cosiddetti ‘terzi partiti’.
Premesso che a livello nazionale nel 2016 la candidata democratica Hillary Rodham Clinton ha ottenuto il 51.1 per cento del suffragio popolare (ripeto, ‘terzi’ esclusi) espresso e che Joe Biden il 3 novembre scorso avrebbe raggiunto il 52.3 con un incremento pertanto dell’1.2, ecco, Stato per Stato e discendendo nella graduatoria dal più al meno, dove i democratici hanno raccolto appunto più o meno voti
Questo a prescindere dal risultato locale.
Mi spiego con un esempio.
In Texas, Biden ha superato delll’1.9 per cento i suffragi popolari di Hillary ma ha ugualmente perso lo Stato.
Ecco:
Colorado, Biden più 4.2
Nebraska, 3.7
Delaware, 3.6
Kansas, 3.6
New Hampshire, 3.6
Wyoming, 3.2
Alaska, 3.1
Vermont, 3.1
Connecticut, 3.1
Maine, 3.1
Maryland, 3.0
Minnesota, 2.8
Georgia, 2.8
Montana, 2.7
North Dakota, 2.6
South Dakota, 2.6
Kentucky, 2.5
Idaho, 2.4
Massachusetts, 2.4
West Virginia, 2.4
Oklahoma, 2.4
Virginia, 2.4
Rhode Island, 2.3
Oregon, 2.1
Arizona, 2.1
Indiana, 1.9
Texas, 1.9
Missouri, 1.9
Tennessee, 1.8
Utah, 1.7
South Carolina, 1.6
Michigan, 1.5
Alabama, 1.5
North Carolina, 1.2
Washington, 1.1
Pennsylvania, 1.0
Iowa, 0.9
New Mexico, 0.9
New Jersey, 0.9
Louisiana, 0.7
Mississippi, 0.7
Wisconsin, 0.7
Ohio, 0.2
Arkansas, 0.1
New York, Hillary Clinton più 0.1
Nevada, 0.1
Illinois, 0.3
Florida, 1.1
California, 1.2
District of Columbia, 1.2
Hawaii, 2.4

USA: uno Stato dal 1776. Quando una Nazione?

La fondazione come un fatto storico inevitabile.
Il loro sviluppo come un processo inesorabile.
Voluto da Dio.
Il fato segnato il giorno medesimo nel quale Cristoforo Colombo si era messo in mare.
Questa la risposta data da uno dei primi importanti storici americani – George Bancroft nel 1834, non ancora sessantenne il Paese – alla domanda composta nel titolo, nell’intento di scolpirne la pluralità futura e il cosmopolitismo.
E, d’altra parte, cos’altro poteva vergare un sostenitore ante litteram della teoria del Destino Manifesto?
Al proposito, poi, ecco quanto osserva in ‘Queste verità. Una storia degli Stati Uniti d’America’, Jill Lepore:
“… Dichiarando la propria Indipendenza nel 1776, gli Stati Uniti erano divenuti uno Stato, ma cosa poteva renderli una Nazione?
La storiella che il loro popolo discendesse da una stessa stirpe era palesemente assurda.
Si trattava di gente giunta da luoghi diversi e dopo avere intrapreso una guerra contro la Gran Bretagna l’ultima cosa che voleva era celebrare la propria
‘inglesità’…”
1492, dunque!?

La Corte Suprema respinge il ricorso sul voto in Pennsylvania

All’unanimità, senza che nessuno tra i membri motivasse la propria posizione, la Corte Suprema ha respinto il ‘vecchio’ ricorso che riguardava il voto postale in Pennsylvania.
Per conseguenza, resta valida la certificazione dello Stato con capitale Harrisburg quanto alla composizione della delegazione dei 20 suoi Grandi Elettori, ovviamente democratici.
Non che tale decisione ‘debba’ – ma, insomma, sì – necessariamente indicare un rifiuto altresì nei riguardi del più recente ulteriore appello presentato dal Procuratore Generale del Texas avverso l’esito del voto in Georgia, Michigan, la stessa Pennsylvania e il Wisconsin.
D’altra parte, il ‘momento’ cardinale fissato per il 14 al Collegio Elettorale si avvicina velocemente.

Non è finita per Trump?

Ricorso alla Corte Suprema ad opera del Procuratore Generale del Texas Ken Paxton contro Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin accusati di avere illegalmente e all’ultimo minuto modificato le regole del voto per corrispondenza.
Nella denuncia, Paxton chiede che i 62 Grandi Elettori espressi dai 4 Stati suddetti non siano tenuti in considerazione nella votazione del Collegio Elettorale in programma il 14 dicembre.
Nell’ipotesi, i Delegati colaggiù favorevoli a Biden scenderebbero sotto la soglia della maggioranza assoluta e il democratico non potrebbe essere incoronato.
Vedremo, peraltro con non molta considerazione quanto alla possibile accoglienza da parte della Corte del ricorso stesso le cui basi giuridiche vanno argomentate e valutate.

Un repubblicano nel 2024?

Orbene, per quanto risulti indubbiamente il candidato repubblicano (uscente e in cerca di conferma, la qual cosa ha certamente contato) più popolarmente votato della storia, Donald Trump – dovrebbero certificarlo (accadrà) i Grandi Elettori il prossimo lunedì 14 votando nel Collegio che li racchiude – ha perso.
Insistenti voci lo indicherebbero intenzionato a riproporsi nel 2024.
Vedremo (è accaduto nel 1892 che Grover Cleveland, già alla Executive Mansion dal 1885 al 1889 e sconfitto nel 1888, si sia preso la rivincita, governando nuovamente).
Questa ipotesi a parte, quale il percorso che verrebbe da indicare ad un esponente del Grand Old Party intenzionato a vincere il 5 novembre 2024? (E non si creda che questa possibilità sia assolutamente remota.
Esaminando il 2020 elettorale e confrontandolo, l’ottimo Scott Rasmussen ha messo in rilievo sorprendenti analogie con il 1976, quando, la allora netta sconfitta del Grand Old Party che a molti appariva tombale, annunciava nientemeno che il Reagan 1980 e 1984!).
Come in altre occasioni vergato, il partito repubblicano non è mai stato (neppure nelle due ultime campagne per White House) un ‘Comitato Elettorale’.
È il partito di Abraham Lincoln.
Di Theodore Roosevelt.
Di Ronald Reagan.
E di mille altri (compreso un Presidente della Corte Suprema vero e decisivo riformatore quale fu Earl Warren) che, con loro, si sono costantemente interrogati ideologicamente e culturalmente, lasciando nell’azione profonda e imperitura traccia.
E nel 2015/16, cos’altro stava a significare che fossero in 17 a confrontarsi per la nomination se non che il dibattito interno era estremamente articolato?
Centristi, ovviamente.
Conservatori in campo economico.
Conservatori – non solo gli Evangelici ma anche frange notevoli di Cattolici e non pochi tra questi Ispanici – in campo etico.
Sostenitori dell’Originalismo nella lettura della Costituzione e delle Leggi.
Integralisti.
Tea Party.
Ambiti particolarmente vicini ai Libertariani.
Radicali.
Una composizione a fronte della quale l’establishment democratico imponeva (Bernie Sanders fu ‘segato’ per avere osato anche solo proporsi) una ‘impacchettata’ Hillary Clinton, voluta dai poteri forti e sostenuta a spada tratta da media non impegnati ad informare quanto a politicamente incidere.
Nella temperie, un Donald Trump apparentemente ‘stonato’ ma, lo si è constatato nel quadriennio a seguire, invero, per quanto ‘maverick’ e quindi, a tutto suo modo, repubblicano, ha vinto prima la nomination che gli pareva negata e poi (contro ogni pronostico, col voto del Grandi Elettori) la Casa Bianca.
Certo, nessuno è oggi in grado di neppure immaginare quanto accadrà nei prossimi quattro anni.
Su quali temi si articolerà il dibattito politico economico sociale nel 2024.
Certo, comunque, che ‘il’ candidato repubblicano giusto – quale il confronto interno selezionerà – dovrà esserlo compiutamente, con orgoglio, rifiutando ogni compromesso, rifiutando assolutamente la perdente e sciocca tentazione di mutare pelle.
Più repubblicano ancora, pertanto!

Perché Biden questa volta sì per i media?

Non è la stessa persona!
Questa la sola possibile risposta all’interrogativo composto nel titolo.
Demolito e costretto dallo scandalo 32/33 anni fa (alla sua prima candidatura per la nomination democratica) al ritiro quando si dimostrò nei pubblici discorsi un ridicolo plagiario del leader laburista inglese Neil Kinnock per di più capace di ‘prendere in prestito’, senza citarne la fonte come fossero proprie, efficaci espressioni di Hubert Humphrey e di Robert Kennedy.
(E venne fuori qualcosa di poco limpido anche con riferimento a un suo corso di legge presso la Syracuse University…).
Autore nel 2008 di frasi di un alla fine trasparente anche se articolato sfondo razzista (del resto, Kamala Harris di cosa lo ha accusato se non di questo ‘difetto d’origine’ nel primo dibattito televisivo 2020 tra dem salvo poi accettare – spirito di servizio – di affiancarlo?) a proposito del rivale Barack Obama (“The first mainstream African American who is articulate and bright and clean a nice-looking guy”) e per la seconda volta in ritirata giustamente sotto schiaffo ad opera dell’establishment mediatico.
(Si aggiunga, dopo avere conquistato un sontuoso 1 per cento nel Caucus dell’Iowa).
Assolutamente e senza possibile addebito, adamantino, di specchiate virtù, un Principe Azzurro anziano ma decisamente tale, questa volta.
Sostenuto al punto di riuscire a superare (e certamente il fatto che il circo mediatico si fosse dimenticato delle sue stesse precedenti denunce ha contato enormemente) i gravi momenti iniziali, quanto al seguito nelle urne, di difficoltà in Iowa e New Hampshire.
Dopo la conquista l’8 aprile della certezza di essere il nominato dem ‘in pectore’, praticamente trasformato in una icona non disturbabile che ben sa cosa in ogni circostanza (Covid naturalmente compreso) come correttamente e a buon fine si deve fare senza avere necessità di neppure dirlo.
Ebbene, Joe Biden ha vinto.
Certo, il ben diverso momento.
Certo, l’avversario.
Certo, tutto quello che si vuole.
Ma soprattutto è certo che si tratti di un’altra persona!