La Fondazione Italia USA ha seguito tutta la campagna elettorale americana per le elezioni presidenziali del 2020 con i commenti esclusivi di Mauro della Porta Raffo, saggista e giornalista, presidente onorario della Fondazione Italia USA, uno dei più qualificati esperti a livello internazionale di storia politica degli Stati Uniti e elezioni presidenziali americane. Tra i suoi numerosi libri, “Obiettivo Casa Bianca. Come si elegge un presidente” (2002), “I signori della Casa Bianca” (2005), “Americana” (2011), “USA 1776/2016 – Dalla Dichiarazione di Indipendenza alla campagna elettorale del 2016” (2015), “Le Cinquantuno Americhe” (2019), “USA 2020, tracce storiche, politiche, istituzionali” (2020).

“Il” dibattito televisivo 1960 Kennedy/Nixon

Una delle convinzioni più radicate e false contro la quale è quasi impossibile lottare è quella relativa “al” dibattito televisivo del 1960 tra i due candidati alla Casa Bianca John Kennedy, democratico, e Richard Nixon, repubblicano.
In verità, i confronti tra i due furono quell’anno 4.
E si pensi a quanto inchiostro (si sarebbe detto una volta) è stato usato da grandissime (?) firme per commentare quanto in effetti non assolutamente unico, non irripetuto.
Ogni qual volta, per collegamento, mi vengono in mente almeno due altrettanto granitiche differenti asserzioni:
“L”‘allunaggio (furono 7!).
“Il” viaggio di Colombo in America (4!).

Elezioni USA e una ‘vera’ grande firma: Giovanni Spadolini

Credo sia qui opportuno (necessario) riportare la parte conclusiva delle argomentazioni vergate nel 1980 da uno dei pochi ‘grandi’ del giornalismo, Giovanni Spadolini.
Si occupa da par suo del confronto Carter/Reagan.
Corre il 10 novembre e La Stampa pubblica ‘L’America di Carter e quella di Reagan’.
Ecco:
“A distanza di quattro anni dall’elezione di Carter, una certa immagine dell’America è completamente cambiata, tutte le speranze di allora si sono dissolte o vanificate. L’avvento di Carter volle dire il rilancio di una certa America, rooseveltiana e kennediana: l’America dei diritti civili e della indivisibilità di tutte le libertà, l’America che abbandona al suo destino le dittature latino-americane e non impiega la Cia per salvare regimi traballanti od oppressivi nell’intera sfera del Terzo mondo, l’America che non crede alle astuzie ‘metternichiane’ di Kissinger nelle relazioni fra i blocchi e nei rapporti fra gli Stati, l’America che si sente profondamente ‘europeista’ e ‘illuminista’, rifuggendo da qualunque tentazione di isolazionismo, da qualunque orgoglio di solitaria e sprezzante autonomia imperiale.
Un’America moralista, puritana, quasi virtuosa; l’America che spiega la politica generosa ma spesso innocente di Carter, che sta alla base della sua imprevedibilità e della sua nevrosi, che contiene in sé i germi dei suoi fallimenti e dei suoi errori ma anche delle sue grandezze (Camp David, per esempio).
Per gli europei, e soprattutto per gli europei di fede democratica, l’America di Carter era molto più di casa di quanto non sia l’America di Reagan: col suo liberismo sfrenato, col suo individualismo orgoglioso, col suo primitivismo aggressivo, con la sua istintiva diffidenza verso un’Europa giudicata elemento di confusione o di corruzione (il partito di Reagan è stato avverso, nel corso di un secolo, all’intervento americano sia nella Prima sia nella Seconda guerra mondiale: c’era perfino un’ala fra il ’38 e il ’39 che sarebbe stata disposta a trattare con Hitler).
E’ un’America che considera il ‘New Deal’ un errore, la politica di intervento dello Stato nell’economia un riflesso del ‘demonio’ socialista (cui si oppone il puritanesimo liberistico, dell’uomo che fa da sé), la ‘Nuova Frontiera’ un fantasma che sta fra la retorica e l’utopia: un giornalista penetrante e malizioso ha parlato per Reagan di un “Roosevelt capovolto”.
Le radici ideali sono una cosa; le varianti tattiche un’altra.
Gli elementi di continuità fra i due Presidenti, soprattutto nella sfera internazionale, supereranno di gran lunga le differenziazioni o addirittura le antinomie fra i personaggi, fra i loro retroterra culturali, fra le ispirazioni differenziate, o addirittura contrastanti delle due visioni della vita e del mondo.
Ho visto Reagan una sola volta, a Los Angeles, insieme con Saragat e Fanfani; e il Presidente del Senato lo ha ricordato sere fa in un affollato dibattito televisivo sulle prospettive della nuova amministrazione americana, cui abbiamo partecipato entrambi.
Eravamo nel settembre del 1967; il Presidente Saragat compiva il suo famoso giro del mondo, di pace e di amicizia, quel giro che partì dal Canada per concludersi nei sultanati del Golfo Persico.
Il governatore della California ci ricevette in un grande albergo di Los Angeles: forse lo stesso che aveva scelto a quartier generale della sua campagna presidenziale (non meno che della prima conferenza stampa post-elezione).
Giungevamo da Washington; il pranzo alla Casa Bianca, in onore di Saragat, che finiva in quel giorno sessantanove anni, era stato funestato da un incidente diplomatico, da un momento di incomprensione fra il Capo dello Stato italiano e il presidente Johnson, un democratico tollerante su tutto tranne che sulla questione vietnamita nella quale non accettava consigli o suggerimenti da nessuno, e neanche dagli alleati europei.
Certi rilievi di Saragat, che adombrava una linea morbida, di negoziato, agli Stati Uniti, avevano suscitato l’irritazione del padrone di casa.
Il clima che si respirava a Los Angeles, in quell’isola repubblicana, era di fermezza e di durezza ancora maggiori di quella della Casa Bianca, in materia di Vietnam, e in genere di equilibri internazionali.
La difesa del prestigio imperiale degli Stati Uniti toccava vertici sconosciuti alla linea tanto più cauta e prudente dei democratici al governo.
Eppure, quattro anni più tardi, sarebbe stato un Presidente repubblicano a liberare gli Stati Uniti dalla tragedia vietnamita: con una spregiudicatezza inconcepibile non dico per Kennedy ma anche solo per un Johnson.
Un paradosso che arriva fino a Reagan”.

Sondaggi favorevoli ai democratici in Georgia

Non c’è da meravigliarsi, ovviamente.
Come durante tutta la campagna elettorale, i sondaggi – stavolta quelli relativi ai due decisivi, quanto alla maggioranza, seggi senatoriali in ballo il 5 gennaio in Georgia (laddove lo stesso Donald Trump è personalmente intervenuto) – danno in vantaggio i democratici.
Più nettamente, prevarrebbe Raphael Warnock su Kelly Loeffler (52 a 45 per cento).
Meno (50 a 58), Jon Ossoff su David Perdue.
Peraltro, nello specifico, il margine d’errore previsto dall’istituto che ha effettuato la rilevazione a fine novembre è del 5,2 per cento.

Del rapporto Stati Uniti d’America Cina

La Diplomazia Cinese ai tempi del ‘Regno di Mezzo’ e conseguenti articolazioni.
“Nei periodi di maggior potenza, la Diplomazia del ‘Regno di Mezzo’ costituiva una razionalizzazione ideologica per la promozione della potenza imperiale.
Nei periodi di declino serviva a mascherare la debolezza e a manipolare a proprio vantaggio le rivalità degli avversari.
In confronto a più recenti potenze che si sono contese il potere assoluto, la Cina (non ‘una civiltà’, ma ‘la Civiltà’, con l’iniziale maiuscola) era un Impero soddisfatto con limitate ambizioni territoriali…
L’obiettivo una periferia obbediente e divisa, anziché direttamente sottomessa al controllo cinese.
Il fondamentale pragmatismo caratterizzante quei (lunghi) tempi trovava la sua espressione più notevole nel comportamento verso i conquistatori.
Quando un sovrano straniero vinceva in battaglia, l’elite burocratica cinese offriva i propri servigi ai vincitori sulla base del (logico, altresì per questi stessi) presupposto che un territorio così vasto e peculiare come quello che avevano appena conquistato poteva essere governato soltanto usando i metodi, la lingua e la burocrazia già esistenti.
Ad ogni generazione subentrante i nuovi (in origine) bellicosi arrivati venivano a trovarsi (si pensi alle Dinastie Yuan e Qing, alla Mongolia e alla Manciuria, pertanto) sempre più profondamente assimilati in quell’ordinamento che avevano cercato di dominare.
Alla fine, i loro stessi territori natii – punto di partenza delle invasioni – sarebbero stati considerati ‘luoghi’ della Cina medesima.
E si sarebbero ritrovati (consenzienti, più o meno consciamente) a promuovere i tradizionali interessi nazionali cinesi capovolgendo completamente l’originario progetto di conquista”.

Certo che la rilettura del testo appena riportato – che ho pensato opportuno nella circostanza rielaborare, eliminando inciampi e ripetizioni di traduzione, e non poco ampliare – vergato da Henry Kissinger nel suo imperdibile ‘On China’, 2011, sia fondamentale per gettare le basi storiche di ogni argomentazione in merito al rapporto, universalmente ad ogni bisogna esteso ed oggi imprescindibile tra l’America – ‘trumpiana’ o ‘bideniana’ (in qualche modo, dispiace, poca cosa comunque) che sia stata e possa essere – e gli eredi, apparentemente diversi dal narrato ‘allora’, ed invece i medesimi e memori ed estremamente capaci.
Così come per nulla dimentichi – tutt’altro, ci mancherebbe – del profondamente sofferto e intelligentemente da riscattare ‘Secolo dell’Umiliazione’ (dalle ‘Guerre dell’Oppio’ alla proclamazione da parte di Mao Zedong della Repubblica Popolare) che costrinse ed offese – per quanto nel 1863, giustamente non ancora ‘compreso’, l’allora Imperatore avesse inviato ad Abraham Lincoln una paternalistica missiva trattando consuetamente questi evidenti ‘disturbatori’ – il Grande Paese, ‘momento’ di portata davvero epocale dagli USA stessi e dall’Occidente dimenticato, se mai in qualche modo e periodo effettivamente percepito.

I libertariani hanno fatto vincere Biden (?!)

(I dati numerici sotto indicati non sono definitivi ma possono comunque fornire una ipotesi di indagine che, in fondo, è ogni volta la stessa: i partiti minori, per quanti pochi voti raccolgano, in alcune situazioni, possono apparire determinanti, anche se, invero, nessuno può sapere con certezza come i ‘terzi votanti’ si sarebbero espressi se il terzo o quarto partito non si fosse nella specifica circostanza proposto.
Oggi l’attenzione – altre volte rivolta ai Verdi – si concentra sui Libertarian.
In genere, i Green sono ritenuti concorrenziali ai democratici, mentre gli ora citati già votanti nel 2016 in buon numero per Gary Johnson, dei repubblicani).
Arizona: Biden precede Trump dello 0,3 per cento dei voti popolari e la candidatura della leader del Libertarian Party ottiene il sostegno dell’1,5 dei votanti.
11 i Grandi Elettori attribuiti a Joe Biden.
Georgia: il democratico 49,51 e il GOP 49,25 mentre Jo Jorgensen è sostenuta dall’1,2.
16 i Grandi Elettori attribuiti a Joe Biden.
Pennsylvania: più complicato ancora visto che se i suffragi popolari della Signora Jorgensen fossero aggiunti al tycoon questo e il democratico sarebbero alla pari, forse divisi da una decina di preferenze per l’uno o per l’altro.
20 comunque i Grandi Elettori attribuiti a Joe Biden.
47 in totale.
Se davvero – lo vedremo il prossimo 14 dicembre al Collegio – i Delegati per l’ex Vice Presidente sono 306 e da questi fossero sottratti gli indicati Biden non vincerebbe.
(Rileggere quanto vergato in apertura).

Perché il Collegio dei Grandi Elettori vota il prossimo 14?

Nel 1792, il Congresso stabilì che i Grandi Elettori, formando il Collegio a ciò delegato, si esprimessero – riunendosi Stato per Stato nella capitale – per il Presidente il primo mercoledì del dicembre seguente le cosiddette votazioni presidenziali.
Le urne avrebbero dovuto essere aperte per la nomina degli stessi Delegati nei precedenti 34 giorni e in questo ambito temporale ciascuno Stato poteva indicare ai propri cittadini il momento.
Con una Legge Federale (la materia non è costituzionalmente regolata) del gennaio del 1845, fu poi deliberato che dalla successiva elezione del 1848, il voto che doveva portare alla scelta dei Grandi Elettori fosse fissato al primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile.
Molte le ragioni di questa determinazione e di differente natura.
La Religione che impediva ovviamente si votasse di domenica, giorno del Signore, nonché in Ognissanti.
Il fatto che il mercato avesse quasi ovunque tradizionalmente luogo di mercoledì.
Quanto al mese, che in una società nella quale comunque l’agricoltura e, meno, l’allevamento del bestiame erano importanti, novembre fosse relativamente più agibile per le questioni amministrative e politiche.
(Per inciso, è dal 1872 che le votazioni Congressuali si svolgono nelle medesime 24 ore).
Per qualche tempo (dal 1887), il Collegio si espresse il secondo lunedì del successivo gennaio (si entrava in carica il 4 marzo, va ricordato).
Poi, infine, dal 1936 (visto che nel 1933 si era decisa l’anticipazione dell’Insediamento al 20 sempre del gennaio seguente), come oggi ancora è, “al primo lunedì dopo il secondo mercoledì del dicembre dell’ anno elettorale”.
Ecco perché la riunione in questa circostanza si svolgerà il prossimo 14!

I tempi non sono ‘normali’

“Nei periodi tranquilli della nostra vita pubblica il sistema dei partiti sembra una istituzione meravigliosamente unitaria.
Suo scopo è di nascondere, comporre e mettere a tacere i grossi conflitti e di confinare il dibattito sugli stessi nell’ambito delle Regioni e degli Stati per impedire che diventi un motivo di divisione per l’intera Nazione.
In tempi normali, gli elettori sono chiamati a scegliere, il giorno delle votazioni, tra uomini e partiti che in realtà dicono le stesse cose.
Il sistema non è apprezzabile da un punto di vista intellettuale, ma ha rappresentato in pratica il test dell’unità nazionale”.
Così, il 28 luglio 1968, Walter Lippman.
(E va qui sottolineato come il famoso e perspicuo politologo – rarissimo che uno studioso in cotal modo definibile sia di grande capacità e rilievo come nel caso invero fu – analista a quella temperie da decenni imperante, subito dopo, assolutamente non dimentico della lacerante Guerra del Vietnam in corso – tema ovviamente, se non unico con le conseguenze morali e sociali causate, dominante la campagna nel ‘68 in atto – aggiunga:
“È questo un momento del genere.
È difficile distinguere Humphrey da Nixon ascoltando le loro pubbliche dichiarazioni sulla Guerra, sull’intervento nelle Regioni Asiatiche, sulle gigantesche spese militari, sulla violenza e sulla gravità dei nostri problemi interni”).
Orbene, qualcuno – dal 2016 certamente ma altresì da ben prima – ritiene tuttora condivisibile, applicabile, una delle asserzioni (sostanzialmente, quando vergate, pressoché inattaccabili) di Lippman?
Una almeno?
È “il sistema dei partiti una istituzione meravigliosamente unitaria” quando democratici e repubblicani opposti e contrapposti in radice, ideologicamente, idealmente, politicamente, socialmente, eticamente, giuridicamente, in ogni prospettica ipotesi e conseguente azione si battono?
Sono stati, sono – perfino a proposito della Guerra – praticamente indistinguibili come Humphrey e Nixon (ciascuno, anche, secondo formazione, educazione e maniera),
George Walker Bush e Al Gore nel 2000,
Barack Obama, nel 2012 con Mitt Romney
soprattutto, Hillary Rodham Clinton e Donald Trump nel 2016?
meno, ma insomma, lo stesso tycoon e Joe Biden?
Si può arrivare ancora a dire che “il sistema rappresenta in pratica il test dell‘unità nazionale?” nel mentre due – insofferenti e disprezzanti l’una l’altra – sono oggi di tutta evidenza le Americhe?
Le riposte sono (non possono che essere) negative.
Ma attenzione alle eccessive semplificazioni.
Come in ogni e qualsiasi campo, nel mondo, per le più varie ragioni (quelle tecnologiche, per prime) il da tutti promesso ‘cambiamento’, inarrestabile, che procede per proprio conto, è sempre più rapido.
La società americana – ci mancherebbe altro, ma il riferimento è al vortice sociale – cambia e fenomeni di non breve momento, in qualche modo decenni o perfino pochi anni fa se non programmabili dipoi gestibili, tali non sono più.
Viviamo tempi complicati.
Molto molto bene: impossibile annoiarsi!

Non facciano scherzi!

Quanto stupirebbe il fatto che Buttigieg non entrasse in qualche modo nella Amministrazione Biden?
Ma come, è gay e sposato?
È stato nientemeno che sindaco di una cittadina dell’Indiana?
Prima della sua entrata nella campagna dem per la nomination – nella quale solo per i motivi ora elencati ha brillato 20 giorni (perbacco!) – non lo conosceva nessuno?
Ah, è un liberal e un riformista?
Gli spetta.
Non facciano scherzi!

A chi ci si rivolge nei comizi in campagna elettorale?

I continui attacchi mediatici a Donald Trump sono tutti impostati sull‘improponibilità assoluta e indiscutibilmente acclarata delle sue volgarissime idee, sulla rozzezza delle conseguenti affermazioni e sulla sguaiataggine delle successive azioni.
Volgarità, rozzezza, sguaiataggine, eccetera, così giudicate da quanti lo attaccano.
(Non evidentemente da oltre 73 milioni di Americani, a loro volta considerati alla medesima stregua – Hillary Clinton lo disse chiaramente nel 2016).
A sostegno delle loro faziosità (mai nella storia tutta la stampa si è in precedenza comportata come una parte in causa), i liberal che rappresentano establishment e poteri forti, come appena detto, portano quanto Trump pubblicamente è.
Orbene, sapendo benissimo di non avere possibilità alcuna di farlo capire a gente di tale razza, in politica, di più nelle campagne elettorali, una persona minimamente capace non cerca assolutamente di convincere gli avversari, gli oppositori a votare per lui.
Tempo perso e danno anche economico conseguente.
Si rivolge a quanti gli sono vicini, usando temi e parole adatte, producenti.
Non ha insomma mai pensato Trump – che ricambia certamente il disprezzo di quanti ne fanno parte – di convincere la redazione del New York Times a votare per lui.
So di arrecare a quei signori un terribile dispiacere dicendoglielo, ma è così!

Le prime email elettorali della storia

Pare incredibile (si fa per dire e non pochi giovanottelli sgraneranno gli occhi leggendolo), ma le email (con tutto quello che poi nel web è stato scaricato a fini elettorali nelle cosiddette Presidenziali) sono state usate per la prima volta dai repubblicani il 17 maggio del 2000.
14 di numero, dirette a giornalisti della carta stampata e della tv che seguivano quella campagna.
9, le immediatamente inviate in risposta dallo staff del candidato democratico Al Gore.
Quante nel 2020?