Ryan ha votato Trump

Ponendo definitivamente fine alle voci in merito, lo speaker della camera dei rappresentanti Paul Ryan – repubblicano e lungamente contrario al tycoon nuovaiorchese – ha dichiarato oggi di avere votato via posta per Donald Trump.

Nel mentre, un nuovo sondaggio mette in ansia i democratici perché pone il GOP davanti a Hillary Clinton.

Di pochissimo ma è un segno rilevante considerando che prima del recente nuovo scandalo l’ex first lady era nettamente in testa.

Butta male per la signora ma c’è tempo e modo per rimediare.

Debra Saunders for Gary Johnson

Si avvicina il fatidico 8 novembre e ai candidati minori – ove si escluda Evan McMullin e solo nello Utah – ci si interessa sempre meno.

I sondaggi indicano un loro costante declino.

Ovvio, visto che la lotta tra i due big si va radicalizzando.

E’ pertanto, in questa particolare situazione, da segnalare l’endorsement a favore del libertariano Gary Johnson opera della celebre columnist ora del San Francisco Chronicle Debra Saunders.

Spiega la signora – da sempre vicina ai conservatori – di essere arrivata a tale determinazione per disperazione visti i due a suo modo di vedere impresentabili candidati e i loro programmi.

Evviva!

Hillary Clinton rischia davvero

La nuova (ennesima) bufera, il nuovo scandalo, sembra abbiano ferito gravemente Hillary Clinton.

La lettera ufficiale al Congresso con la quale il direttore dell’FBI ha annunciato una nuova inchiesta sull’ex first lady per via delle email che la riguarderebbero rintracciate tra le mille e mille (addirittura seicentocinquantamila, pare) rinvenute nel corso di una indagine penale nei computer della sua segretaria e del di lei ex marito potrebbe averla azzoppata a oramai meno di dieci giorni dal voto.

Si è già detto che i sondaggi danno oggi alla pari l’ex segretario di Stato e il suo sfidante.

Si è detto che addirittura prima della deflagrazione del nuovo inghippo Trump l’aveva superata di quattro punti nella determinante Florida.

Ma quel che davvero preoccupa grandemente la signora, il suo staff e tutto l’establishment democratico è l’esito di un’altra particolarissima rilevazione.

Orbene, se tra coloro che hanno già votato via posta il cinquantaquattro per cento era favorevole alla Clinton (contro il trentasette di ‘trumpiani’), adesso, tra quanti devono ancora votare – e sono una larga maggioranza – il cinquantuno per cento si dichiara a favore del GOP, mentre solo il quarantadue è ancora intenzionato ad appoggiare Hillary.

Non va affatto bene, pertanto.

Comunque, specie in una campagna tanto movimentata (forse, più che mai in precedenza), sbaglierebbe chi desse oggi per venduta la pelle dell’orso! 

Trump e Clinton alla pari?

Eccoci qua.

Ventiquattr’ore dall’annuncio dei nuovi guai dell’ex first lady ed ecco già i primi sondaggi che suonano per lei il campanello d’allarme.

Per il vero, pare strano che subito Trump abbia rimontato e si sia portato alla pari.

Strano perché un’altra rilevazione dice che del nuovo scandalo clintoniano alla maggioranza degli elettori non importa un bel niente.

Si sono assuefatti?

Più preoccupante, a ben guardare, invece, il dato riguardante la Florida che in un sondaggio condotto prima dell’emergere del nuovo inghippo e reso noto dal New York Times sarebbe in mano al GOP che condurrebbe le danze per quattro punti percentuali: quarantasei a quarantadue!

Grave per la signora.

Grave.

Hillary sulla graticola (di nuovo)

Ci risiamo.

Il direttore dell’FBI ha reso nota l’apertura di una nuova inchiesta a carico di Hillary Clinton.

Altre email, pare.

Non quelle della precedente indagine, le famose trentamila (molte di più, invero) scritte non utilizzando i canali ufficiali dalla allora segretario di Stato.

Indagine archiviata tra mille dubbi e proteste.

Altre: sembrerebbe, emerse a seguito del sequestro di computer della segretaria o, non è ancora chiaro, del da lei separato marito.

Quale il contenuto e perché tirare fuori una questione di tale portata a soli dieci giorni dal voto?

Vedremo.

Quel che è certo – e chi nei suoi panni si sarebbe comportato differentemente – è che Donald Trump si è buttato a pesce sulla notizia.

Davvero la novità muterà le intenzioni di voto?

E poi, non è che per caso tre o due giorni prima dell’8 novembre la stessa FBI scagionerà la signora regalandole un assist magnifico?

Mah.

Rocky De La Fuente

Già invano candidato alla nomination tra i democratici (e non è che sia andato poi male in quella competizione dominata da Hillary Clinton e dallo sfidante Bernie Sanders), il californiano Rocky De La Fuente non ha voluto deporre le armi.

Eccolo, pertanto, fondatore dell’American Delta Party, candidato a White House per il suo stesso movimento e per il Reform Party.

Come molti tra i concorrenti ‘minori’, non gli è riuscito di iscriversi nelle schede elettorali di tutti gli Stati e corre in effetti solo per centoquarantasette ‘grandi elettori’, quelli spettanti ad Alaska, Colorado, Florida, Idaho, Iowa, Kentucky, Minnesota, Mississippi, Montana, Nevada, New Hampshire, New Jersey, New Mexico, North Dakota, Rhode Island, Tennessee, Utah, Vermont, Wisconsin, e Wyoming.

Inoltre, può essere aggiunto a penna (sistema ‘write in’) in West Virginia, Indiana, Delaware, Nebraska e Arizona.

Essendo fissata a duecentosettanta la maggioranza assoluta dei delegati, quella che raggiunta consente di arrivare alla Casa Bianca, De La Fuente (come Evan McMullin che comunque pare avere la possibilità di vincere nello Utah) è in pista senza nessuna reale possibilità.

Chapeau!

Hillary rischia un dopo 8 novembre molto travagliato

Hillary Clinton, prevalesse su Donald Trump e arrivasse a White House, stabilirebbe non uno ma due primati.

Ovviamente, sarebbe la prima donna a conquistare la presidenza USA.

Nel contempo, ove la maggioranza al congresso restasse repubblicana, quasi certamente, risulterebbe il primo capo dello Stato americano a finire sotto inchiesta non appena insediato.

L’ex first lady, infatti, può contare sul fatto che gli elettori non tengano conto dei suoi precedenti poco commendevoli ma non può sperare che il GOP non approfitti dell’occasione per darle addosso.

Una prospettiva poco gradevole.

I quindici Stati incerti

Ok, dai sondaggi – dobbiamo fidarci almeno un poco di questo fallace strumento – sappiamo che in un certo numero di Stati l’esito elettorale è scontato (per fare solo un esempio per parte, la California è democratica senza dubbio alcuno così come l’Idaho è repubblicano in ogni caso).

Sappiamo anche che in una quindicina di Stati, invece, il voto è incerto, o, perlomeno, lo era fino a poco fa.

Ecco, ieri in data 26 ottobre, riportando l’ultima rilevazione nota e trascurando le altre, la situazione in questi alla fine determinanti territori:

Arizona, Trump in vantaggio di un punto percentuale

Colorado, Clinton più due

Florida, Trump più due

Georgia, Trump più quattro

Iowa, Trump più quattro

Michigan, Clinton più otto

Minnesota, Clinton più otto

Missouri. Trump più otto

Nevada, Clinton più sette

New Hampshire, Clinton più quattro

North Carolina, Clinton più sette

Ohio, Trump più quattro

Pennsylvania, Clinton più tre

Virginia, Clinton più cinque

Wisconsin, Clinton più cinque.

Le altre elezioni: governatori, senatori, rappresentanti

8 novembre, election day.

Gli americani alle urne.

Scelgono i grandi elettori che dipoi nomineranno il presidente.

Ma votano anche per l’intera camera dei rappresentanti, per un terzo dei senatori, per i governatorati.

Al 26 ottobre, le previsioni in merito sono le seguenti.

Al senato – al momento composto da cinquantaquattro repubblicani e quarantasei democratici – cinquanta seggi a testa.

Alla camera – oggi formata da duecentoquarantasei GOP e centoottantotto dem – dove prevedere è più complicato, duecentoventiquattro repubblicani, centonovanta asinelli con ventuno scranni incerti.

Quanto ai governatori – al momento sono trentuno i GOP, diciotto i democratici e uno indipendente – trenta gli amici di Trump, quindici quelli di Clinton.

L’attenzione è tutta rivolta ai due contendenti per White House ma le altre competizioni sono a loro volta importantissime.

Chi è Mindy Lisa Finn e perché parliamo di lei?

Evan McMullin – l’ex agente CIA candidato indipendente alla Casa Bianca sceso in campo solo lo scorso agosto e per questo inserito nelle schede elettorali solo in una dozzina di Stati (per il vero, votabile in un’altra ventina scarsa col metodo ‘write in’) – stando ai sondaggi, va alla grande nello Utah, dove potrebbe addirittura prevalere.

Ovviamente, forma un ticket appunto indipendente.

Non altrettanto ovviamente il suo running mate – il candidato alla vice presidenza – è una donna.

Si tratta della texana Mindy Lisa Finn, una stratega informatica di assoluta preparazione che in passato ha lavorato con George Walker Bush nel 2004 e Mitt Romney nel 2008 (per inciso, come McMullin, è uscita dal partito repubblicano proprio in occasione di questa campagna elettorale).

Finn ha fondato l’organizzazione femminista ‘Empowered Women’, organizzazione che tuttora presiede.

Di religione ebraica, è sposata e ha due figli.

Si tratta di uno dei candidati più giovani mai proposti in un ticket presidenziale essendo la signora nata nel febbraio del 1980.

Ha trentasei anni e il limite minimo per la candidatura è trentacinque.