La Fondazione Italia USA ha seguito tutta la campagna elettorale americana per le elezioni presidenziali del 2020 con i commenti esclusivi di Mauro della Porta Raffo, saggista e giornalista, presidente onorario della Fondazione Italia USA, uno dei più qualificati esperti a livello internazionale di storia politica degli Stati Uniti e elezioni presidenziali americane. Tra i suoi numerosi libri, “Obiettivo Casa Bianca. Come si elegge un presidente” (2002), “I signori della Casa Bianca” (2005), “Americana” (2011), “USA 1776/2016 – Dalla Dichiarazione di Indipendenza alla campagna elettorale del 2016” (2015), “Le Cinquantuno Americhe” (2019), “USA 2020, tracce storiche, politiche, istituzionali” (2020).

Il voto popolare a livello statale, non federale

Wisconsin, 8 novembre 2016 (1).
1.405.284 elettori (pari al 47,22 per cento) votano Donald Trump che prevale su Hillary Clinton di meno di 22.000 suffragi e conquista i 10 membri del Collegio, che successivamente eleggeranno il Presidente, ai quali lo Stato con capitale Madison ha diritto.
Wisconsin, 3 novembre 2020.
Donald Trump incrementa notevolmente il numero delle preferenze e arriva a 1.620.065.
Perde però e deve fare a meno dei Delegati predetti perché Joe Biden supera agevolmente il voto di quattro anni dell’ex First Lady nonché nella circostanza il suo.
Ottiene colaggiù il democratico 1.630.673 preferenze pari al 49,57.
Tutto questo detto, per cercare ancora una volta (la millesima?) di mettere in chiaro il meccanismo elettorale americano che prevede l’assegnazione di tutti i Grandi Elettori statali al pretendente che prevalga nel voto popolare locale nulla significando invece quello nazionale.
(È così non per via di normative federali ma statali, la qual cosa si constata vedendo che il Maine e il Nebraska seguono un metodo diverso dall’indicato, in 48 Stati e nel District of Columbia operante, ‘winner takes all’).

(1) Diamo qui, ai fini della articolazione, per buoni i dati per quanto al momento non ufficiali di uno dei tre Stati che nel 2016 hanno determinato la vittoria del tycoon e che verosimilmente oggi gli costano la rielezione.

Sette donne. Perbacco!

“Insieme a Kamala Harris, Joe Biden ha scelto sette donne per lo staff che durante la sua Presidenza si occuperà della comunicazione alla Casa Bianca”.
Questa la politicamente corretta (altroché!) decisione della quale ieri è stata data notizia dall’entourage democratico (invero non l’unica visto che il settantottenne si è procurato delle micro fratture a un piede e dovrà portare un tutore).
Come altre volte detto e come chiunque abbia sale in zucca sa, cosa mai può importare – e a chi? – che le prescelte siano delle Signore?
Non dovrebbero contare invece le capacità dimostrate ed espresse?
Ciò vergato, immediatamente mi do del retrogrado, della persona pericolosamente all’antica, in fondo volgare.
Non mi riesce infatti proprio di capire (e per di più non voglio) che l’umano futuro si annuncia luminoso per via di queste ‘aperture’ per arrivare ad esserlo definitivamente quando i prescelti per una qualsivoglia incombenza dovranno essere LGBTQW, handicappati e di colore senza nessuna eccezione.
Ma certo!

Degli USA e della Cina, secondo Henry Kissinger

Un saggio indispensabile ‘On China’, 2011, di Henry Kissinger, imprescindibile al fine di affrontare sulle solidissime basi storiche che vengono esposte nei primi capitoli e delle seguenti e conseguenti articolazioni determinate – oltre che da numerosissime visite e incontri cinesi ai massimi possibili livelli – dalle memorie di un uomo che del rapporto USA/Cina, volendo e meglio, Occidente/Cina, dagli anni Settanta del trascorso Novecento è stato a tutto tondo protagonista, il tema ‘vero’ del Secolo inaugurale del Terzo Millennio.
Nella Prefazione si trovano queste infinitamente implicanti righe:
“… le due società si sentono entrambi portatrici di valori unici.
L’eccezionalità che gli Stati Uniti si attribuiscono implica un atteggiamento missionario, l’obbligo di diffondere i propri valori in ogni angolo del globo.
L’eccezionalità della Cina è invece un dato culturale.
La Cina non cerca di fare proseliti.
Non pretende che le sue attuali istituzioni abbiano valore oltre i suoi confini.
Ma è l’erede della tradizione del Regno di Mezzo, che classificava tutti gli altri Stati secondo una scala gerarchica calcolata sulla loro maggiore o minore conformità alle istituzioni della politica e civiltà cinese.
In altre parole, attribuiva un valore quasi universale alla propria cultura”.
Anche.
Altresì.
Chissà?

Dal 12 e 19 luglio 1984 al 3 novembre 2020

Il 12 luglio 1984 il candidato democratico in pectore Walter Mondale annuncia che a far parte con lui del ticket per le votazioni novembrine ha scelto Geraldine Ferraro, al momento Rappresentante ala Camera per uno dei Distretti del New York.
Il 19 successivo, nell’ambito della Convention dell’Asino in programma a San Francisco, la first woman nonché la prima italoamericana in corsa per il prestigioso incarico veniva ufficialmente investita.
Le elezioni non ebbero certamente l’esito che i democratici (invero avvertiti da sondaggi avversi) si aspettavano e la disfatta del duo Mondale/Ferraro (vincente, per un soffio, solo nel Minnesota di Walter e nel District of Columbia) resta, quanto a Grandi Elettori conquistati, la peggiore di sempre.
Trascorsero la bellezza di 24 anni prima che una seconda Signora, stavolta repubblicana, affrontasse, anche lei perdendo, la medesima sfida.
Governatrice dell’Alaska, risultò una scelta infelice (criticabile, quanto di certo Ferraro non fu mai).
Si chiamava Sarah Palin e accompagnò nella sconfitta John McCain.
È questo travagliatissimo 2020 l’anno nel quale infine il tanto agognato traguardo verrà (manca poco) vittoriosamente tagliato e alle spalle dell’eletto Joe Biden si collocherà Kamala Harris.
A ben guardare, da un punto di vista che non dovrebbe essere insignificante, Harris – occorre pur dirlo – quanto a seguito elettorale non ha mai brillato.
Il primo dibattito tra candidati dem a parte – laddove attaccò duramente proprio Biden per pregresse posizioni a suo modo di vedere ‘razziste’ – non sfondò e dovette ritirarsi, avendo quale massimo accredito nei sondaggi un deludente 3 per cento.
È successivo frutto del caso il suo ritorno in scena?
Di un invece intelligente e finalizzato intervento dell’establishment del partito?
Si studieranno le influenze e le determinazioni se mai ve ne sono state di questa sua candidatura che da molti è stata considerata una investitura in prospettiva 2024, essendo davvero difficile pensare che a quella data un Biden ottantaduenne si ricandidi.
La prima donna ‘afroamericana’ si è detto e non è assolutamente vero non discendendo da schiavi ed essendo per di più per parte di madre Tamil.
La prima Vice ‘di colore’? ed è falso perché Charles Curtis, a Washington con Herbert Hoover, era anche un Nativo.
Storicamente, come si vede, pur con ogni possibile simpatia, una anomalia.
Vedremo.

Interessi (democratici) e sentimenti (repubblicani)

Fa bene, di quando in quando, tornare a leggere di oramai, se non antiche, di certo datate campagne per White House.
Fa bene se, come accade scorrendo le righe dedicate da un assai più attento di altri analista nel 1984 agli schieramenti partitici all’epoca in contrapposizione, si trova affermato nero su bianco che “il democratico è il movimento degli interessi mentre il repubblicano è quello dei sentimenti”.
Era vero allora mentre la coalizione di poteri che si vedeva costretta e messa in disparte da Ronald Reagan si stringeva invano attorno a Walter Mondale per cercare di non essere travolta, ed esserlo.
È stato dipoi vero per i due Clinton (massimamente per Hillary, la candidata che ‘doveva’ vincere).
Lo è stato (con un successo fortemente condizionato – determinato? – dalla pandemia) in questo 2020, laddove Joe Biden cos’altro ha rappresentato andando con l’appoggio assoluto degli establishment all’assalto di uno sgangherato e grezzo sostenitore degli antichi sentimenti quale si è palesato Donald Trump se non appunto il mondo dei più intrecciati poteri?
E basti ancora una volta guardare alle (per carità, ‘oscurantiste’) posizioni etico/religiose, al rifiuto che proprio il comune sentimento ha opposto al ‘progressismo’, alle ‘riforme liberal’, in verità ‘sinistre’ ed avvilenti, per comprendere l’essenza della battaglia.
Persa nel declino.
Probabilmente, in futuro, senza scampo
Parafrasando Chateaubriand, ahi noi, sempre più gli uomini che accettano infine di buon grado l’immoralità quando loro all’infinito proposta.

‘Victory Party’ prima di una dura sconfitta? Ebbene, sì!

È in data 28 ottobre 1980, con le votazioni fissate al vicino 4 novembre, che il Presidente democratico Jimmy Carter e il candidato repubblicano Ronald Reagan si confrontano in un dibattito il cui esito gli osservatori non riescono (?!) a valutare.
Come si faceva allora, immediato, il successivo ‘Victory Party’ (anche in campo GOP) nel quale il Presidente e il suo Vice Walter Mondale, a prescindere, festeggiavano.
Ora, a parte la constatazione che il pregiudiziale appoggio della stampa agli Asinelli anche a questo riguardo – appoggio arrivato a mettere in dubbio la effettivamente travolgente vittoria di Reagan – è (e resta) deprimente, dobbiamo davvero credere che i democratici nella circostanza non abbiano invece benissimo compreso cosa sarebbe di lì a pochi giorni successo?
Che Carter sarebbe stato il secondo (l’ultimo, altresì, come sappiamo ora) tra loro a non essere confermato?
Non è affatto così.
Erano talmente consci della prossima batosta (tale fu) che Carter per primo sarebbe arrivato – cosa che gli fu rimproverata dai colleghi candidati al Congresso che dal suo comportamento furono penalizzati – a riconoscere la sconfitta politicamente troppo presto.
Una volta indetto, un ‘Victory Party’ non può certamente essere annullato né celebrato come un funerale!

Pennsylvania non ancora definita

Stando ai dati certificati e alle indicazioni di sondaggi (mancano ancora i dati relativi a parecchi Stati e non molti giorni alla scadenza di un mese dal voto del 3 novembre!) – che probabilmente concludono effettivamente a favore di Joe Biden – una eventuale sentenza della Corte Suprema pro Donald Trump in Pennsylvania non ne comporterebbe la conferma.
20, difatti, i Grandi Elettori ai quali lo Stato in questione ha diritto.
Importante però sarebbe una pronuncia tanto autorevole ai fini per così dire morali e in fondo etici.
Colaggiù, dal primo momento – intervenne praticamente subito a dividere i voti postali da quelli nell’urna il Giudice Supremo Samuel Alito – il tema è stato di carattere giuridico e non afferente (anche, successivamente, ma non altrettanto importante) eventuali conteggi errati o ‘truffe’.
Decisioni prese localmente da autorità non competenti che hanno cambiato la normativa e avuto tutta l’aria di accomodamenti a favore dei democratici (si sostiene).
Vedremo se davvero si andrà fino in fondo e quale nel caso sarà la soluzione in sentenza.

Un ripasso: come si determinano le date elettorali

Quest’anno si è votato (anticipato e postale a parte) nelle cosiddette Presidenziali e in verità per Grandi Elettori il 3 novembre.
Perché?
Quest’anno il Collegio degli or ora citati Delegati degli Stati nomineranno il Presidente il 14 dicembre.
Perché?
In ragione di due differenti disposizioni che recitano
– la prima:
“Si vota il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile”
– la seconda:
“Il Collegio elettorale si riunisce nelle capitali dei singoli Stati e vota il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del successivo dicembre”.
È seguendo queste indicazioni che si arriva appunto alle due date citate.
È seguendo queste indicazioni che si può sapere oggi quando gli Americani voteranno nel 2024, nel 2036, nel 2048…
Così, quando i futuri Collegi dei Grandi Elettori eleggeranno in quelle date il Presidente.
Chiaro?

“L’ex Presidente Trump”

Non v’è articolo, intervento radiofonico o televisivo nel quale, parlando di Donald Trump, di questi tempi, non lo si definisca come “l’ex Presidente”.
Bande di ignoranti calzati aprono con queste parole bocca, dipoi ulteriormente sproloquiando.
È il mestiere peggiore al mondo quello del giornalista dato che non richiede nessuna preparazione e cultura (e moltissimi, di grande fama – si vedano le mie ‘Pignolerie’ sul Foglio e in volume – i poveracci).
Nessuna.
Nel caso, chiunque avesse un minimo di conoscenza o altrimenti volesse istruirsi (quando mai?) dovrebbe/potrebbe sapere che la Costituzione Americana, gli Emendamenti in merito, le Leggi Federali e locali (e non le Agenzie di stampa o il New York Times) determinano.
Donald Trump, naturalmente, è (è!) pienamente in carica e lo sarà fino alle ore 12 di Washington del prossimo 20 gennaio 2021.
La transizione in corso – che si articola comprendendo la comunicazione ufficiale il giorno 8 dicembre da parte degli Stati dei loro Grandi Elettori, la successiva riunione il 14 del Collegio degli stessi per la votazione, la ratifica da parte del Congresso in data 6 gennaio, si concluderà a quel mentre.
E so benissimo di avere riportato ora per la millesima volta parole che nessuno leggerà e che, se lette, non verranno comprese.
Un disastro!

Kamala Harris non è “la prima persona di colore” alla Vice Presidenza

Personalmente, trovo riprovevole ogni sottolineatura riferita al colore della pelle delle persone.
Non mi interessa nulla che Tizio o Caio sia blu piuttosto che verde.
Ben altre e assai più significative le possibili divisive questioni.
La religione, come ricevuta e vissuta (l’Occidente, oramai a-religioso, non si vuole più rendere conto della straordinaria importanza del tema).
L’educazione.
Il ceto sociale.
Ovvio che anche a proposito del colore della pelle dei politici sia sulle stesse posizioni.
E con maggiore disgusto perché quasi sempre i partiti usano la ‘razza’ per sfruttare il diffuso ‘razzismo’ degli elettori.
E non mi riferisco soltanto alla volgarissima intolleranza, per convenzione, ‘di destra’.
Anche, maggiormente perché ben più diffusa, alla discriminazione, spesso inconsapevole ‘di sinistra’.
Per capirci, cos’altro è un elettore che voti per un nero solo perché tale, prescindendo da valutazioni afferenti le sue capacità, se non un razzista?
Per di più, come nel caso di Barack Obama spacciato per ‘Afroamericano’ non essendolo affatto (è un ‘Kenyan American’, tutt’altro).
Tutto ciò ribadito, trattando della Vice Presidente eletta (invero, tale – salvo formale successiva ratifica congressuale – solo dopo il prossimo 14 dicembre, giorno del voto ad opera del Collegio dei Grandi Elettori) Kamala Harris, alcune precisazioni.
Sarà effettivamente la prima Signora a ricoprire l’alto incarico.
Sarà, per parte di madre Tamil, la prima ‘Asian American’.
Sarà, per parte di padre, la prima giamaicana.
Non (non) sarà “la prima persona di colore” collocata nel ruolo.
È difatti in questa classifica preceduta dal Vice Presidente di Herbert Hoover Charles Curtis (in carica dal 1929 al 1933) in parte Nativo americano.
Notevole uomo politico, Curtis era stato educato fuori dai classici schemi USA tanto che l’inglese non era la sua lingua (parlava francese e kansa) e dovette impararlo.
(Altrettanto aveva ai suoi tempi fatto il Presidente Martin Van Buren, olandese di famiglia).
Auguri, ovviamente, tutte queste considerazioni a prescindere, alla Signora Harris!